Licenziamenti disciplinari e contrattazione collettiva tra realtà e immaginazione
di Alberto Piccinini
Note critiche a proposito della sentenza Cass., Sezione Lavoro, n. 12365 del 9 maggio 2019
Articolo pubblicato su "Questione Giustizia"
1. Lo stato dell'arte
La sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro come conseguenza del licenziamento illegittimo ha subito un notevole ridimensionamento dopo l’entrata in vigore della cd. legge Fornero (l. n. 92/2012) e, ancor più, dopo il Jobs Act (nello specifico d.lgs. n. 23/2015).
In particolare, per quanto riguarda il licenziamento disciplinare, la prima la prevede solo in due ipotesi:
a) in caso di «insussistenza del fatto»;
b) quando «il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili».
Sull’ipotesi della sussistenza o meno del fatto e sulla sua “materialità”, dopo tanto dibattito [1] si è pervenuti ad un approdo definitivo, riassunto nel principio secondo cui «l’insussistenza del fatto contestato, di cui all’art. 18 St. Lav. come modificato dall’art. 1 comma 42 della l. n. 92 del 2012, comprende l’ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità» (Cass. 23 maggio 2019 n. 14054, che cita Cass. 20540/2015; Cass. 18418/2016; Cass. 11322/2018).
Quindi, anche se sotto il profilo lessicale può apparire paradossale che venga considerato insussistente un fatto sussistente, ciò avviene quando esso non ha rilevanza disciplinare.