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I limiti del diritto di satira secondo la Cassazione: commento alla sentenza sul licenziamento degli operai di Pomigliano

Stefania Mangione e Alberto Piccinini

La sentenza 6 giugno 2018 n. 14527 con la quale la Corte di Cassazione ha riformato la decisione della Corte d’Appello di Napoli del 27 settembre 2016, considerando legittimi i licenziamenti dei dipendenti che avevano inscenato una rappresentazione di finto suicidio di un pupazzo che rappresentava l’amministratore delegato di FCA/FIAT ripropone il tema dei confini del diritto di critica, più volte affrontato dalla stessa Corte in termini non univoci.

Quel giorno si era uccisa un’operaia e l’anno prima si era impiccato un altro lavoratore: i dipendenti che hanno messo in atto la rappresentazione, lo avevano fatto attribuendo alla società la responsabilità di quei gesti, con espressioni "satiriche", certamente pesanti, ma tuttavia strettamente riferite al comportamento imprenditoriale che si voleva criticare : la responsabilità del datore in merito alle condizioni di disperazione indotte nei lavoratori in ragione delle scelte imprenditoriali adottate.  Tale convinzione era stata giuridicamente definita dalla Corte d’Appello di Napoli “verità putativa”, ossia “ritenuta soggettivamente come corrispondente al vero”.

Prima di entrare nel merito delle valutazioni della Corte, preme osservare come in un caso, molto simile - perché riguardava i tre dipendenti Fiat di Melfi licenziati per motivi asseritamente disciplinari - la Corte ritenne inammissibili gran parte dei motivi di ricorso per cassazione, riguardando essi “l’accertamento dei fatti, ma con riferimento alla valutazione degli stessi, che attiene al merito della causa e non può essere riformulata in sede di legittimità” (Cass. sent. 31 luglio 2013 n. 18368). Al contrario nel caso in commento la Corte di cassazione ci sembra riformuli considerazioni di merito, peraltro diametralmente opposte a quella dei giudici di secondo grado.

Ciò dà la misura di come i destini delle persone, messi in mano alla giustizia, dipendano da valutazioni del tutto soggettive dei magistrati chiamati a decidere. E questo non può che amareggiare chi invece si illude che esistano dei principi di certezza di diritto.

Il tema centrale della motivazione della sentenza riguarda l’individuazione del punto di equilibrio tra l’interesse di una persona oggetto di affermazioni o gesti asseritamente lesivi del proprio onore e l’interesse contrapposto alla libera manifestazione del pensiero dell’autore (o degli autori) di quelle affermazioni o di quei gesti.

In particolare si trattava di tracciare i confini del diritto di critica esercitato attraverso la satira che - come riconosce la stessa Corte nella sentenza in commento - prevede “l’utilizzo di un linguaggio colorito ed il ricorso ad immagini forti ed esagerate” che “essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e vizi di uno o più persone, è essenzialmente simbolico e paradossale”.

Nonostante ciò, la Corte ha censurato il comportamento dei lavoratori che avrebbero attribuito “all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima, nonché derisione e irrisione”. 

A nostro avviso, poiché suscitare irrisione può essere considerato lo scopo della satira, appare esagerato ritenere che le “modalità espressive della critica manifestata dai lavoratori” abbiano spostato la dialettica sindacale “su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario”.

Le conclusioni cui approda la sentenza suonano inoltre non prive di un certo moralismo nei passaggi in cui, pur riconoscendo che la condotta dei lavoratori non ha integrato il reato di diffamazione, ritengono che vi sia stata una violazione dell’obbligo di fedeltà  (art. 2105 c.c.) per la “menomazione dell’onore, della reputazione e del prestigio del datore di lavoro (…) contravvenendo al cosiddetto minimo etico: ossia a quei doveri fondamentali che si concretano in obblighi di condotta per il rispetto dei canoni dell’ordinaria convivenza civile”.

Non è certo la prima volta che la giurisprudenza si misura con casi in cui in cui la critica sindacale si era espressa con toni e modi di disapprovazione, anche particolarmente aspri. Con sentenza n. 15165/2012, la Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, ha statuito l’illegittimità del licenziamento di un dipendente (e rappresentante sindacale) che aveva rivolto un insulto al proprio superiore. Precisamente, la Corte ha affermato che “l’espressione ‘sbruffone’ rivolta all’amministratore unico della società, seppur censurabile sul piano disciplinare, appariva inidonea a giustificare l’adozione della misura espulsiva, essendosi trattato di una semplice reazione emotiva scevra da intenti di minaccia” e altresì ha escluso la sussistenza dell’insubordinazione nel rifiuto del dipendente di ricevere la documentazione relativa alla procedure di mobilità concernente anche la sua posizione lavorativa, ritenendo che “le frasi di apprezzamento negativo dell’iniziativa datoriale espresse dal lavoratore potevano essere ricondotte alle sue prerogative di sindacalista”.

In un altro caso di esercizio del diritto di critica con toni aspri da parte di un sindacalista, accusato di reato, si è ritenuta la condotta incensurabile “nell’ambito ed in ragione del mandato sindacale dell’imputato in quanto rappresentante di un’organizzazione di categoria e dunque in funzione delle finalità istituzionali sottese a quell’incarico”, ritenendo che “le espressioni oggettivamente offensive, sono tutte funzionali all’iniziativa sindacale e in sintonia con i pertinenti moduli espressivi e non debordando, dunque, dai limiti all’esercizio del relativo diritto per risolversi in attacchi gratuiti ad personam”. Secondo la decisione “non travalica i limiti immanenti al relativo diritto (di critica: ndr) neppure il manifestato convincimento che le condotte denunciate potessero integrare anche ipotesi di reato” (Cass. 27.2.2012 n. 7633).

E ancora, la Suprema Corte ha ritenuto che non superassero i limiti della continenza espressiva espressioni come “carattere “sconcertante” o “grottesco” o “borbonico” della situazione, definita come “vergogna aziendale” (Cass. 4.6.2013 n. 38962; cfr. anche Cass. 12.6.2009 n. 32180; Cass. n. 8799/2008; Cass. n. 13880/2008; Cass. n. 9084/2008; Cass. n. 29433/2007; Cass. n. 19427/2001).

Riteniamo che la Corte di Cassazione, sulla base dei suoi stessi precedenti, avrebbe potuto confermare la decisione della Corte d’Appello di Napoli.
Desta quindi amarezza constatare il particolare rigore dimostrato in questo caso che comporta la perdita definitiva del posto di lavoro di cinque operai.


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