Il contributo della Cgil nel contrasto al Jobs Act

di Lorenzo Fassina

Responsabile Ufficio Giuridico CGIL Nazionale

Il criterio di calcolo del risarcimento del lavoratore previsto dal jobs act in caso di licenziamento illegittimo è contrario ai principi previsti dagli artt. 4 e 35 della Carta fondamentale: la Consulta, con quella che a ragione può davvero considerarsi una decisione storica, boccia quindi sonoramente un pezzo importantissimo delle cd. “tutele crescenti”. Una sentenza storica perché arresta un riflusso – appunto - storico frutto delle riforme recessive che il diritto del lavoro ha subito nell’ultimo ventennio e che si è concluso con la madre di tutte le controriforme, cioè il cosiddetto “jobs act”, la ciliegina sulla torta che ha voluto modificare il codice genetico dell’intera disciplina giuslavoristica. Il mutamento (che si voleva) definitivo ha trovato nel decreto 23/2015 (sulle cosiddette “tutele crescenti” e l’abrogazione dell’articolo 18 per i neoassunti dal 7 marzo 2015) la sua degna conclusione.
Merito della Cgil, che invano aveva tentato di abrogare per via referendaria il decreto 23 ed affermare così i principi indicati nella sua “Carta dei diritti” (tuttora pendente come ddl di iniziativa popolare in Parlamento), aver insistito – dal punto di vista vertenziale-legale - nella ricerca di casi concreti da portare di fronte alla Corte costituzionale.

Gli sforzi dei giuristi e degli Uffici vertenze di tutta la Confederazione hanno, con non poca fatica, portato ad un risultato: il Tribunale di Roma, con ordinanza del 27 luglio 2017, ha posto la questione alla Consulta chiedendole di giudicare la conformità a Costituzione del sistema di risarcimento del danno stabilito dall’articolo 3 del decreto 23/2015. Un sistema che, in omaggio ai dettami della dottrina economicista del “firing cost”, o “costo di separazione”, attribuiva al datore di lavoro il privilegio di bypassare le normali regole civilistiche di risarcimento del danno, sanzionando il suo comportamento illegittimo con una misera e preventivabile somma di denaro.
Quel rigido criterio, infatti, rispondeva pienamente ai dettami della cosiddetta “law and economics”, secondo cui il diritto deve assolvere alla funzione di predeterminazione rigida dei costi (anche del preventivato comportamento illecito, qual è il il licenziamento senza valida giustificazione) da parte delle imprese, indipendentemente dalla valutazione concreta del pregiudizio arrecato al lavoratore e dalla scorrettezza del comportamento da parte del datore di lavoro.
In sostanza la monetizzazione dell’illegalità.
L’aver messo in discussione questo punto è, a ben vedere, un risultato straordinario e in controtendenza che potrà costituire un efficace deterrente contro i comportamenti opportunisti dei datori di lavoro che, in passato, sapendo in anticipo quanto sarebbe costato un licenziamento ancorché illegittimo, hanno comminato licenziamenti di comodo consapevoli della sostanziale impunità.
D’ora in poi, quindi, una possibile condanna a 36 mesi di risarcimento (per ottenere la quale avremmo dovuto attendere, prima di questa sentenza, l’anno 2033) certamente indurrà i datori alla prudenza e offrirà al sindacato e all’avvocato maggiori spazi di trattativa.
La sentenza della Corte costituzionale, di cui ancora non si conosce nel dettaglio la motivazione, rappresenta quindi un cambio di rotta molto importante che non è minimamente scalfito – come qualcuno ha sostenuto – dal fatto che la Corte non abbia reintrodotto la reintegrazione nel posto di lavoro. Basta avere una minima nozione di giustizia costituzionale (e un po' di consapevolezza degli equilibri in Corte costituzionale) per comprendere che la Consulta non avrebbe mai potuto stabilire la reintroduzione dell’articolo 18 per il semplicissimo motivo che il Tribunale di Roma non la aveva chiesta, ritenendo l’istituto della reintegra privo di copertura costituzionale.
Vero è, invece, che con questa sentenza si riattribuisce alla sanzione risarcitoria la sua funzione, sancita anche a livello europeo dalla Carta sociale, di effettiva deterrenza contro i comportamenti illegittimi dei datori di lavoro. Come è vero, in aggiunta, che la sentenza stigmatizza anche il decreto dignità perché (pur aumentando il minimo e il massimo delle mensilità) ha mantenuto inalterato il meccanismo di rigida predeterminazione del risarcimento in ragione del rapporto mensilità/anni di anzianità.
Ora, è del tutto evidente che - da quanto si apprende dal comunicato della Corte – questo principio di predeterminazione asettica presente anche nel decreto dignità è stato minato alla radice, riattribuendo al giudice la funzione di calibrare il risarcimento del danno a misura di parametri oggettivi e soggettivi, in omaggio ad un criterio di giustizia e ragionevolezza.
A tutto ciò si deve aggiungere un’altra considerazione: con la recente sentenza n. 77/2018 la Corte costituzionale, in un giudizio anch’esso seguito dalla Cgil, ha reso meno rischioso il processo per il lavoratore dal punto di vista della condanna alle spese in caso di soccombenza.
Non è quindi azzardato affermare che, d’ora in poi, a seguito di queste due importantissime sentenze, il sindacato e tutti i lavoratori in genere potranno avere modo di sviluppare una attività vertenziale e legale molto più incisiva rispetto al recente passato.
In attesa del deposito della sentenza, quindi, appare opportuno prendere tempo nelle conciliazioni in sede sindacale o in sede giudiziaria: la Corte, infatti, nella motivazione dovrebbe indicare i parametri in base ai quali il giudice potrà dimensionare il risarcimento del danno. A tal fine, potrebbe indicare la gravità della infrazione, autorizzando il risarcimento massimo in caso di motivazione assolutamente generica; potrebbe, altresì, indicare quali condizioni del lavoratore giustifichino incrementi risarcitori (età, carico familiare, mansione, collocazione geografica dell’impresa); infine, potrebbe indicare quali parametri aziendali possono indurre il giudice a scostarsi verso il tetto massimo del risarcimento (pari a 24 mensilità per i lavoratori licenziati prima del 14 luglio 2018 oppure pari a 36 mensilità per i licenziati dopo quella data): dimensione occupazionale, floridità economica etc..
La sentenza dovrebbe altresì chiarire le ricadute del rinnovato potere discrezionale del giudice negli altri casi di licenziamento: licenziamento con violazione della procedura o  con vizi formali (art. 4 d.lgs. 23/2015); licenziamento nelle piccole imprese (art. 9 d.lgs. n. 23/2015); riflessi sull’offerta conciliativa di cui all’art. 6 del decreto 23; lo stesso dicasi per i licenziamenti collettivi, rimasti fuori ma certamente coinvolti dalla sentenza.
In definitiva – e in attesa del pronunciamento del Comitato europeo dei diritti sociali sul reclamo della Cgil sul decreto 23/2015 per violazione della Carta sociale europea - la sentenza della Corte costituzionale è indubbiamente una grande vittoria per la Cgil e per tutto il mondo del lavoro, rappresenta un cambio di passo significativo dal punto di vista della valorizzazione dei principi costituzionali e costituisce un punto di partenza fondamentale dal quale il legislatore potrà e dovrà trarre elementi utili per una revisione complessiva delle tutele del lavoratore, a partire dalla doverosa riaffermazione della reintegra come chiave di volta per l’effettivo godimento di quelle tutele.