Smart Working. Opportunità o ghetto per le lavoratrici?

Pagina web dell’Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno "www.ispf.cnr.it
un articolo di Silvia Ventura su smart working e condizione femminile.

Roberto Evangelista

Silvia Ventura è avvocato ed esercita prevalentemente nell'ambito del diritto del lavoro. Collabora con l’associazione “Comma2”, associazione che si occupa di denunciare le storture di un diritto che spesso non tutela il lavoratore. Il contributo che presentiamo si occupa delle conseguenze che la diffusione dello smart working durante la pandemia ha avuto sulle condizioni lavorative delle donne, acuendo una differenza e un divario che sembra lontano dal ridursi. Il contributo è già apparso sul “blog dei pazzi”  in data 30/06/2020. 

Negli ultimi mesi le lavoratrici e i lavoratori italiani hanno sperimentato un largo utilizzo del c.d. “lavoro agile” disciplinato a livello normativo dalla L. n. 81/2017 e tuttavia sino ad oggi scarsamente diffuso nel nostro Paese.
Ma cosa si intende per “lavoro agile” o “smart working”?

Sia in Italia che nel resto d’Europa quando parliamo di “smart – working” o di pratiche organizzative ad esso assimilabili, ci riferiamo a prassi o regolamentazioni che hanno ad oggetto un rapporto di lavoro subordinato improntato alla massima flessibilità, ma non solo.
Infatti, perché si possa parlare di lavoro agile, devono coesistere: flessibilità/autodeterminazione dell’orario di lavoro, flessibilità/autodeterminazione del luogo di lavoro e uno svolgimento dei compiti per risultati o progetti. Dunque l’idea alla base di tale modello organizzativo sarebbe, in astratto, quella di raggiungere una perfetta combinazione tra libertà/autonomia dei lavoratori dipendenti e una loro maggior responsabilizzazione, legando il loro lavoro al raggiungimento di risultati, nell’ambito di un contesto di collaborazione con il datore di lavoro.

Su questo ideale presupposto si è soliti presentare i modelli di lavoro flessibile come occasione di miglioramento delle condizioni di lavoro, ancor più delle lavoratrici che sembrerebbero, in questa narrazione, le uniche destinatarie dei lavori di cura familiare, così da dover essere messe esse sole nella condizione di “conciliare” i tempi di vita/lavoro.

Questa impostazione così ottimistica e positiva si scontra tuttavia con un dato di fatto ineliminabile, di cui nessuno parla perché effettivamente negli ultimi trent’anni si è fatto finta che non esistesse più: la pressoché inesistente libertà di scelta del lavoratore e, ancor di più, della lavoratrice nell’ambito del lavoro dipendente. Le lavoratrici in particolare subiscono evidentemente un doppio condizionamento: quello tipico esercitato dal datore di lavoro che è il soggetto forte del rapporto contrattuale e quello tipico di una concezione storico/culturale in cui il ruolo della donna è ancora fortemente stereotipato. La libertà di autodeterminarsi, di determinare tempi e luoghi di lavoro da parte dei lavoratori subordinati, presuppone una forza contrattuale che da soli semplicemente non hanno.

Non è un caso che sino agli anni ’80 in Italia e nella maggior parte dei paesi europei, il rapporto di lavoro dipendente sia stato eterodeterminato, ossia disciplinato quasi esclusivamente dalla legge e non dalle parti del rapporto di lavoro. E che la contrattazione collettiva sia ancora oggi tendenzialmente inderogabile da parte del contratto individuale di lavoro (principio sempre meno monolitico in Italia e in Europa). Ovviamente ogni trasformazione e ogni modifica di impostazione, anche legislativa, comporta anche dei vantaggi. Indubbiamente ci saranno molte situazioni in cui l’utilizzo di modelli di lavoro flessibile si traduce in un effettivo miglioramento delle condizioni di vita/lavoro delle persone e delle donne in particolare. È però altrettanto indubbio che la finalità primaria dei modelli organizzativi flessibili sia quella di favorire un mercato più competitivo, con meno costi, meno vincoli, quindi maggiormente capace di affrontare la concorrenza con il resto del mondo. Ciò significa che i lavoratori e le lavoratrici soprattutto, devono essere messi nelle condizioni di contrapporre i propri interessi e necessità, che – contrariamente a ciò che si propone nel discorso pubblico - non vengono soddisfatti automaticamente dal proposto modello flessibile.

È quindi necessario interrogarsi su quali dovrebbero o potrebbero essere gli strumenti correttivi di un modello che, se lasciato alla contrattazione individuale, rischia di appesantire maggiormente la condizione lavorativa soprattutto delle donne. Lo “smart working” non gode – almeno sino ad oggi – di una paternità condivisa a livello sovranazionale. Esso, infatti, non costituisce oggetto di convenzioni internazionali, né di normativa europea.
Tuttavia, trattandosi pur sempre di lavoro dipendente, si deve certamente fare riferimento alla normativa che a livello comunitario è intervenuta a regolamentare il tempo di lavoro e gli orari di lavoro dei lavoratori subordinati (art. 31 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e direttiva sull’orario di lavoro 2003/88 /CE stabiliscono i requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’organizzazione dell’orario di lavoro).

Si tratta di disposizioni che, anche con riferimento a forme e modelli di lavoro flessibili, hanno indotto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea a fare importanti precisazioni: con la sentenza C-55/18 del 14 maggio 2019, ha infatti chiarito che il diritto dei lavoratori comunitari al rispetto degli orari di lavoro massimi stabiliti nella legislazione europea può essere vanificato in assenza di un sistema che consenta la misurazione della durata dell’orario di lavoro giornaliero svolto da ciascun lavoratore. L’implementazione di un tale sistema, a detta della Corte, è necessaria per assicurare il rispetto effettivo della durata massima settimanale del lavoro e dei periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale. In assenza di un tale sistema, prosegue la Corte, non ci sarebbe modo di stabilire con oggettività e affidabilità né il numero di ore di lavoro svolte dal lavoratore (e la loro collocazione nel tempo), né il numero delle ore prestate oltre l’orario di lavoro normale, come lavoro straordinario. Di recente tuttavia è stata approvata la Risoluzione del Parlamento Europeo del 13 settembre 2016 sulla creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale: è evidente l’intento e la necessità di promuovere modelli organizzativi che consentano un risparmio della spesa sociale e allo stesso tempo una possibilità di conciliare il lavoro con le incombenze familiari in maniera più efficiente.

L’utilizzo dello smart working durante la pandemia – traducendosi in un vero e proprio telelavoro forzato - ha messo in luce ed aggravato un contesto socio culturale stabilmente improntato a stereotipi di genere ancora ben radicati in tutta l’area europea, nonostante i progressi e le evidenti differenze tra i paesi del nord e del sud Europa.
Come in altri momenti ed altri contesti, le crisi si abbattono sempre con maggior forza sui soggetti socialmente ed economicamente più deboli e le donne ancora oggi scontano certamente una condizione lavorativa e di scelta maggiormente vincolata. Si consideri infatti che in Europa la percentuale di donne inattive a causa degli impegni di cura familiare ha raggiunto il 31% con un peggioramento negli ultimi dieci anni (dati Agenda 2030 Asvis). E che la disparità di trattamento delle lavoratrici donne viene rilevato in relazione ai livelli retributivi, ai ruoli, alla sottoscrizione di contratti meno stabili e dunque a pensioni più povere.

Durante questo periodo, per esempio, le donne hanno diminuito i propri orari di lavoro per poter seguire i figli a casa e, sempre a titolo esemplificativo, si è riscontrato che le ricercatrici hanno prodotto meno articoli, a fronte di un incremento di tale attività da parte dei ricercatori uomini.
La pandemia ha dunque di fatto ingigantito le disparità già esistenti, comprese quelle di genere, esasperando gli squilibri di partenza già comunque presenti in Italia, in Europa e nel mondo. Anche perché lo “smart working” si è di fatto trasformato in telelavoro e ciò ha evidenziato che il lavoro di cura e domestico è per la gran parte retto dal genere femminile, con conseguente maggior penalizzazione di queste ultime in ambito lavorativo, di crescita professionale ed economica. Il rischio piuttosto concreto è che a causa di questa crisi le donne rimangano indietro. In molte resteranno fuori dal mondo del lavoro: la pandemia rischia, secondo Clare Wenham, assistente professore di politica sanitaria globale alla London School of Economics, di riportarci indietro di moltissimo tempo e le disparità e gli effetti sulla condizione femminile della pandemia dureranno anni.
Al momento legato all’emergenza, il rischio sarà quello di una crisi economica che si abbatterà soprattutto sulle donne: la crisi costerà molto più cara a chi ha impieghi part – time che sono utilizzati più frequentemente nell’impiego femminile, chi ha contratti precari, chi ha stipendi più bassi.

Per chiarire, è importate che i dati e i numeri vengano letti in relazione alle cause ed ai condizionamenti che li determinano: perché non si tratta con tutta evidenza di perseguire uno scopo di cura familiare al 50% o di pari occupazione, quanto piuttosto di verificare quanto le scelte operate dalle donne in ambito lavorativo siano libere o invece eterodeterminate da fattori quali ad esempio la scarsità di asili nido, la maternità stessa, una scarsa autonomia economica, la difficoltà di trovare lavoro ecc. Per esempio, quanto il contratto di lavoro part – time di cui le donne sono  destinatarie in percentuali enormemente superiori a quelle degli uomini, è una precisa scelta della donna e quanto è il risultato dell’impossibilità di avere un servizio di asili nido efficienti, un onere totale di occuparsi di casa e familiari?
È dunque fondamentale indagare le cause di questa disparità, per poter eliminare o trasformare ciò che determina condizionamento alla libera scelta delle donne e quindi proporre modifiche normative e/o percorsi che rafforzino questa possibilità, nella consapevolezza e nel rispetto delle differenze che non devono certo sparire in nome del capitalismo.

In conclusione, lo “smart working”, inteso come modalità organizzativa improntata alla massima flessibilità per lo più demandata in tutta Europa alla contrattazione individuale, rischia di tradursi in un vero e proprio boomerang nei confronti dei lavoratori in generale e delle donne in particolare in quanto già penalizzate sul piano lavorativo. Significa che la flessibilità sul lavoro non necessariamente è sinonimo di migliori condizioni di lavoro: spesso e volentieri significa più lavoro, lavoro isolato, lavoro a risultato pur con il mantenimento di una retribuzione che in Italia ad esempio è oraria e bassa e che rischia di trasformarsi in una vera e propria retribuzione “a cottimo”; lavoro con carico dei relativi costi organizzativi sul lavoratore; minor sicurezza. Evidentemente di per sé sola la scelta di come regolamentare il rapporto di lavoro non garantisce in alcun modo dalle discriminazioni di genere che si possono perpetrare sul lavoro, è quindi necessario un progetto culturale di più ampio respiro, che parta dalla educazione/formazione, nonché per la predisposizione di una rete supporto e di servizi sociali pubblica ed efficiente.