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Brevi riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale del 22 luglio 2022 n. 183

di Alberto Piccinini
Articolo pubblicato in contemporanea sul quotidiano il manifesto.

La sentenza della Corte costituzionale n. 183/2022, depositata il 22 luglio 2022, affronta la problematica della legittimità costituzionale della norma del Jobs Act (art. 9 del d.lgs. n. 23/2015) che prevede, in caso di licenziamento illegittimo di un datore di lavoro con meno di 16 dipendenti, solo un indennizzo economico da 3 a 6 mensilità, mentre per dimensioni superiori, l’indennizzo è da 6 a 36 mensilità. In particolare, la Corte è stata chiamata dal Tribunale di Roma a valutare da un lato se tale (unico) requisito sia ancora determinante per individuare le reali dimensioni di un’impresa, e dall’altro se lo “scarto” tra quel minimo e quel massimo consente al giudice di applicare al caso concreto una sanzione adeguata e dissuasiva.

La Corte ha dichiarato inammissibile la questione, ma con motivazioni che meritano di essere evidenziate, anche per il monito che recano per il legislatore.

In passato (nel secolo scorso) la Corte aveva ripetutamente respinto analoghe questioni di costituzionalità sul simile regime differenziato previsto dallo Statuto dei Lavoratori.

Rispetto a tali decisioni la Corte riconosce che “L’assetto delineato dal d.lgs. n. 23 del 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle più risalenti pronunce di questa Corte. La reintegrazione è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio discretivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.”

In parole povere, se prima un licenziamento ingiustificato “sopra i 15” portava sempre alla reintegrazione (tutela reale) ora non è più così e quindi, se oggi la regola è tendenzialmente la tutela monetaria, “la specificità delle piccole realtà organizzative, che pure permane nell’attuale sistema economico, non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto.”

La sentenza riconosce che l’esiguo divario tra un minimo di 3 e un massimo di 6 mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza” richiamando “tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte” (dimensioni dell’attività economica, anzianità di servizio del dipendente, comportamento e condizioni delle parti) e ribadendo che il licenziamento deve essere considerata l’ultima soluzione (extrema ratio).

Al quesito se sia ragionevole trattare allo stesso modo realtà così differenti (si pensi a un piccolo bar con un solo dipendente paragonato – ad esempio – ad una società come Instagram che quando, nel 2012, è stata acquistata da Facebook per un miliardo di dollari, aveva 13 dipendenti) la Corte implicitamente così risponde: “il numero dei dipendenti (…) non rispecchia di per sé l’effettiva forza economica del datore di lavoro…” Anzi, “in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde, dunque, all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli.”

Dopo aver anche evidenziato la scarsa valenza di un “limite uniforme e invalicabile di sei mensilità”, applicabile a datori di lavoro imprenditori e non - e quindi ad attività tra loro eterogenee, che hanno in comune solo il dato del numero dei dipendenti occupati – la Corte dichiara che tale sistema “non attua quell’equilibrato componimento tra i contrapposti interessi, che rappresenta la funzione primaria di un’efficace tutela indennitaria contro i licenziamenti illegittimi.”

Conclude quindi riconoscendo “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente” e affermando “la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti.”

Fatte queste premesse assolutamente condivisibili (in quanto accolgono i rilievi del Tribunale di Roma e le opinioni scritte depositate dalla CGIL e dall’Associazione Comma2 – Lavoro è dignità, richiamate al punto 4 della sentenza), il Giudice delle leggi afferma di non poter porre rimedio a questa riconosciuta offesa al diritto (vulnus), rimandando al legislatore, di cui vengono invocate le ineludibili valutazioni discrezionali.

Ciò nonostante, la sentenza non si esime da suggerimenti: “Il legislatore ben potrebbe tratteggiare criteri distintivi più duttili e complessi, che non si appiattiscano sul requisito del numero degli occupati e si raccordino alle differenze tra le varie realtà organizzative e ai contesti economici diversificati in cui esse operano … Le soglie dell’indennità dovuta potranno essere rimodulate secondo una pluralità di criteri”.

Ma qui si arresta, lasciando l’impressione di un’occasione perduta da parte di una Corte costituzionale che pur, negli ultimi anni, con importanti decisioni, ha dimostrato coraggio e determinazione nel riproporre valori costituzionali “dimenticati” dalla legislazione del lavoro dell’ultimo decennio.

Ma poiché sussistono legittimi dubbi che la prossima legislatura possa raccogliere la sfida della Corte, occorre riflettere sulla perentorietà con cui si conclude la parte motiva della sentenza: “Nel dichiarare l’inammissibilità delle odierne questioni, questa Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente”.

La soluzione del problema, quindi, è solo rinviata: se il legislatore non dovesse accogliere il suggerimento di intervenire, tra qualche anno la stessa questione di costituzionalità oggi respinta potrebbe essere accolta.

 

 

 

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