Luci e ombre nella rimessione alla Corte Costituzionale delle norme su “Bonus Bebè” e Indennità di maternità
di Alberto Guariso
Articolo contestualmente pubblicato sul sito ASGI.
Con una serie di ordinanze depositate tutte il 17.6.19 (n. 16164 e altre) la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 125 L. 190/14 (bonus bebè) e dell’art. 74 d.lgs. 151/01 (indennità di maternità di base) nella parte in cui prevedono le rispettive prestazioni per i soli stranieri titolari di permesso di soggiorno di lungo periodo, anziché di permesso di soggiorno di almeno un anno ai sensi dell’art. 41 TU immigrazione. Si riapre cosi la discussione su “controllo accentrato” e “doppia pregiudizialità”.
1.
Giunge a una svolta, con qualche sorpresa, il lungo contenzioso (che ha coinvolto gran parte dei Tribunali del lavoro, quantomeno nel Nord Italia) sul diritto dei titolari di permesso unico lavoro alle prestazioni di sostegno alla famiglia e alla natalità: disattendendo le conclusioni della procura generale (che per il bonus bebe aveva chiesto in via principale la conferma delle sentenze favorevoli agli stranieri e in subordine il rinvio pregiudiziale alla CGUE in relazione alla direttiva 2011/98) la Corte di Cassazione ha sollevato l’incidente di costituzionalità.
Le ordinanze contengono diversi passaggi del tutto condivisibili e sicuramente rilevanti ai fini della affermazione del diritto.
In particolare si afferma:
- Il nucleo di bisogni essenziali ai quali il legislatore è sempre tenuto a rispondere in forma universalistica, senza operare distinzioni di sorta, non si identifica con le sole condizioni di invalidità (come spesso si sostiene argomentando a partire dai precedenti della Corte Cost.): anche l’intervento in favore di soggetti in stato di grave bisogno economico ben può rientrare in tale nucleo, tanto più quando venga in gioco anche la tutela costituzionale della famiglia e della maternità ex art. 31 Cost. .
- Il requisito del permesso di lungo periodo è irragionevole perché seleziona i beneficiari “non in base alla entità o alla natura del bisogno, ma ad un criterio privo di ogni collegamento con questo”; e non vi è alcuna relazione tra le finalità degli istituti in questione e “le circostanze di vita pregresse che costituiscono i presupposti per ottenere il permesso di lungo periodo”.
- L’art. 41 TU immigrazione (e dunque il mero requisito del permesso di almeno un anno) rappresenta invece “l’equilibrato bilanciamento tra il diritto dell’extracomunitario di godere, a parità di trattamento con i cittadini italiani, delle misure di assistenza sociale e il riscontro di una presenza dello stesso non temporanea, né episodica sul territorio nazionale”.
- La sentenza della Corte Cost. n. 50/19 (che ha riconosciuto costituzionalmente legittimo il requisito del permesso di lungo periodo per l’assegno sociale) non contraddice questi rilievi perché riguarda il caso specifico degli stranieri anziani.
- L’art. 12 direttiva 2011/98, laddove impone la parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, deve trovare applicazione anche al caso dell’assegno di natalità: viene infatti riconosciuta dalla Cassazione la “pur concreta possibilità” di applicare detta norma con riferimento alla prestazione in esame; e si riconosce che “il diniego dell’assegno di natalità….pare integrare… una discriminazione a causa della nazionalità, come pure espressamente vietata dall’art. 12 lettera e) della direttiva 2011/98” : argomentazione poi completata dal lungo richiamo alla sentenza Martinez 21.6.17 C- 4491/16 che ha sancito l’incompatibilità con la citata direttiva delle norme in materia di assegno famiglie numerose, ma che la Corte, correttamente, ritiene riferibile anche all’assegno di natalità (non potendosi altrimenti spiegare il lungo richiamo)
- Consegue da tale richiamo alla nozione di discriminazione che la rivendicazione dell’assegno da parte del soggetto tutelato dalla direttiva è correttamente azionata con l’azione civile contro la discriminazione ex art. 28 Dlgs 150/11.
2.
Tutto bene dunque ?
Certamente tutto bene per l’ordinanza 16167/19 che riguarda il diritto alla indennità di maternità nel periodo antecedente la scadenza del termine di recepimento della direttiva 2011/98 (25.12.2013): in assenza di una norma sovraordinata che potesse contrastare la previsione contenuta nella norma nazionale, null’altro si poteva fare se non sottoporre la limitazione al vaglio della Corte Costituzionale.
Assai meno bene per le ordinanze sul bonus bebè (16164/19 e altre) che riguardano un diritto sorto nel periodo di piena vigenza della direttiva: qui una vicenda riguardante la condizione di reddito e di vita di migliaia di famiglie straniere è finita incagliata nella complicata diatriba su “controllo accentrato” e “doppia pregiudizialità”; cioè su quale sia la strada da privilegiare qualora una norma nazionale sia sospettata di violare contemporaneamente una norma di diritto dell’Unione e un precetto costituzionale.
Nella giurisprudenza costituzionale il dibattito si è articolato con le note sentenze 267/17, 20/19, 63/19, molto discusse in dottrina (vedi, per una sintesi dei problemi, G. Bronzini, La sentenza 20/19 della Corte Costituzionale, verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di Giustizia ? in Questione Giustizia)
Nel caso del bonus bebé, la questione si pone perché tutti i giudici che hanno accolto le domande degli stranieri, lo hanno fatto disapplicando la norma nazionale in nome della primazia del diritto eurounitario che, con l’art. 12 direttiva 2011/98, prescrive l’obbligo di parità di trattamento sopra ricordato.
La Corte, dopo aver riconosciuto – come detto - la “pur concreta possibilità” di applicare la direttiva 98, opta decisamente per la necessità di un controllo accentrato da parte della Corte Costituzionale circa il coordinamento tra norme nazionali e norme dell’Unione richiamando appunto la citata sentenza 63/19. Su tali basi motiva – con formula piuttosto oscura - che l’interpretazione della direttiva “importa la necessaria disamina della conformità a costituzione della disposizione” (cioè della disposizione censurata).
La scelta suscita perplessità sotto diversi aspetti che, nei limiti qui consentiti, possono essere cosi sintetizzati.
La questione del “controllo accentrato” in sede di giudizio di costituzionalità si è posta nel caso in cui “la violazione di un diritto della persona infranga, ad un tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione” (cosi la sentenza 267/17) ma lascia intatto il principio della diretta applicabilità delle direttive dotate di efficacia diretta (perché sufficientemente precise e operanti nei rapporti verticali, come nel caso della direttiva 98); principio che infatti è lungamente richiamato dalla stessa sentenza 267; la quale, al punto 5.1, ribadisce che l’esistenza di una direttiva dotata di efficacia diretta rende inammissibile la questione di costituzionalità.
Di tali principi ha fatto applicazione la Corte costituzionale nella recente ordinanza 52/19 (di cui è redattrice la medesima giudice della 267/17) con la quale è stata dichiarata inammissibile la questione di costituzionalità delle norme sulla indennità di maternità e sull’assegno famiglie numerose proprio per omessa considerazione dell’art. 12 direttiva 98: sorprende che a tale ordinanza di inammissibilità (peraltro confermativa di analoga precedente ordinanza n. 95/17) la Corte di Cassazione non abbia ritenuto di fare alcun cenno, quantomeno per argomentare perché mai l’esito del rinvio ora disposto dovrebbe essere diverso da quello sortito nelle due precedenti occasioni.
Peraltro la stessa sentenza 63/19 – richiamata dalla Cassazione a sostegno del “controllo accentrato” - ricorda che resta fermo “il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta” (e dunque, a maggior ragione, con i diritti sanciti da una direttiva). Se tale potere “resta fermo”, non è chiaro perché la Cassazione abbia scelto di non esercitarlo, senza peraltro neppure porre in discussione che il principio paritario sia dotato di efficacia diretta. Né l’omissione sembra trovare spiegazione nella scelta di ipotizzare nel PQM - dopo aver lungamente richiamato nel testo il contrasto con la direttiva 98 – il solo contrasto con la Carta dei diritti, il cui richiamo sembrerebbe essere superfluo in presenza di una direttiva dotata di efficacia diretta.
3.
Certamente afferma il vero la Corte di legittimità quando osserva che il peculiare meccanismo della non applicazione “non può realizzare effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità” la quale, con i suoi effetti erga omnes, mette un punto fermo alla questione ed evita le anomalie del cd “controllo diffuso” che affida la soluzione del conflitto tra ordinamenti al singolo giudice, come avvenuto proprio nella vicenda del bonus bebe. Ma c’è da chiedersi se questa valutazione di “opportunità” sia sufficiente a giustificare un cosi drastico contrasto con i principi ripetutamente espressi dalla Corte UE (per l’obbligo di disapplicazione da parte del giudice ordinario si veda da ultimo CGUE 29.1.19 C – 193/17) e un cosi drastico indebolimento del diritto dell’Unione, anche quando questo si è espresso con la chiarezza della norma paritaria. Tanto più che effetti pratici del tutto analoghi potevano essere raggiunti con il pieno esercizio della funzione nomofilattica della Corte che, ove avesse confermato le sentenze di merito dando applicazione alla direttiva 98, avrebbe senz’altro indotto l’INPS a un definitivo adeguamento e alla chiusura del contenzioso, realizzando quel medesimo riordino della normativa che viene ora affidato alla Corte Costituzionale.
Vi sono poi ulteriori e conseguenti interrogativi che le ordinanze lasciano senza risposta: in particolare, laddove si afferma che “ solo in sede di giudizio costituzionale è possibile valutare la ragionevolezza della scelta discrezionale legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi”. Ebbene se il contrasto ipotizzato è con la direttiva 98, il controllo di ragionevolezza è già stato operato dal legislatore dell’Unione, il quale ha stabilito che tutti coloro che fruiscono di un permesso che consente di lavorare hanno diritto alla parità di trattamento; altro “controllo di ragionevolezza” non vi è da compiere da parte delle Corti nazionali, se non l’adeguamento al vincolo paritario.
Analoga perplessità suscita infine il PQM delle ordinanze (ove peraltro, con probabile refuso, si parla di “permesso unico di soggiorno” facendo evidente riferimento al permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo). Viene infatti ipotizzata la incostituzionalità del requisito in contestazione “anziché del permesso di almeno un anno” ex art. 41 TU immigrazione, (con apprezzabilissima rivalutazione della norma del 1998) laddove però, se il contrasto fosse con la direttiva 98, la conclusione avrebbe dovuto essere “anziché del permesso unico lavoro”.
Le ordinanze sembrano così sorvolare – forse volutamente e proprio per “agganciarsi” più alla Carta dei diritti che alla direttiva - sul fatto che le due categorie non sono interamente sovrapponibili: da un lato la categoria della direttiva 98 è più ampia perché ben può accadere che stranieri con permesso che consente di lavorare (inclusi quindi nella direttiva) abbiano un permesso di durata inferiore all’anno (risultando quindi esclusi dalla dichiarazione di incostituzionalità cosi come richiesta); oppure vi possono essere stranieri inclusi nella dichiarazione di incostituzionalità perché titolari di permesso di almeno un anno (ad es. i titolari di permesso umanitario o i lavoratori autonomi) ma esclusi dalla direttiva 98 (che non si applica a queste categorie).
L’eccezione di incostituzionalità può dunque in astratto mantenere una sua rilevanza in quanto copre un ambito leggermente diverso rispetto a quello coperto dalla disapplicazione: resta invece difficile intravederne la ammissibilità e rilevanza – specie alla luce del precedente n. 52/19 – laddove la direttiva 98 sia concretamente applicabile, come appunto nei giudizi giunti all’esame della Cassazione (come la stessa riconosce).
Se cosi è, i “giudici comuni” che finora si sono fatti correttamente interpreti e custodi del diritto dell’Unione dovrebbero continuare a darvi applicazione (a ciò autorizzati proprio dalla sentenza 63/19, senza necessità di attendere una decisione della Corte che potrebbe risolversi in un nulla di fatto.
Alberto Guariso