2003 – 2023 venti anni dalla legge Biagi

di Pier Luigi Panici

Appalti, esternalizzazioni e cooperative spurie:
occasioni inevitabili di sfruttamento dei lavoratori?

Relazione

Appalti illeciti e interposizione parassitaria nelle prestazioni di lavoro:
la tutela giudiziaria.

Anticipo subito che la risposta al quesito del convegno è positiva: la normativa del D.Lgs 276/2003 sugli appalti con la contestuale – ma necessaria – abrogazione della legge 1369/60 è stata predisposta proprio per agevolare lo sfruttamento dei lavoratori.

Con il D.Lgs 276/2003 (cd. Legge Biagi) viene abrogato il divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro della  l.1369/60 esattamente con il fine

di reintrodurre nell’appalto regolato dall’art. 29 anche la mera fornitura di manodopera

  • essendo per questo sufficiente l’esercizio del potere direttivo e organizzativo dell’appaltatore – che, come si vedrà si rinviene assai di rado negli appalti endoaziendali e nelle attività strettamente connesse con il ciclo produttivo dell’appaltante: la esperienza ci dice che nessun imprenditore tollera che ci sia un altro a comandare nella sua azienda
  • l’assunzione del «rischio d’impresa»: sostanzialmente inesistente in quanto il costo dei servizi appaltati riguarda essenzialmente la remunerazione della manodopera.

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Esula dalla presente trattazione la somministrazione di manodopera, ovvero l’utilizzo da parte di imprenditori e «sotto la loro direzione e controllo» di dipendenti di altri (artt. da 20 a 28).

Per due motivi:

 

  1. La legge Biagi regola infatti in modo più organico il lavoro interinale introdotto nel 1997 con il c.d. «pacchetto Treu», e per la verità in modo più «garantista» per il lavoratori somministrati (parità di trattamento con i dipendenti dell’utilizzatore, limitato utilizzo a determinati settori di attività, esigenze temporanee).
  2. Proprio perché più «garantista» la somministrazione è assai meno conveniente e le sue dimensioni quantitative sono – di conseguenza – notevolmente inferiori rispetto all’appalto: riguarda poche decine di migliaia di lavoratori mentre negli appalti si stima siano impiegati circa un milione e mezzo di lavoratori.

Per completezza va evidenziato che la disciplina della somministrazione è stata poi peggiorata con il D.Lgs 81 del 2015 (Poletti – Renzi)

  • con la previsione all’art. 39 di brevi termini di decadenza per l’azione di impugnativa (60 giorni «dalla data in cui il lavoratore ha cessato di svolgere la propria attività presso l’utilizzatore»);
  • per la somministrazione a tempo indeterminato con la eliminazione del comma 3° dell’art. 20, che la rendeva ammissibile per limitate attività di produzione di beni e servizi;
  • per quello a tempo determinato con la previsione, nel 4° comma del medesimo art. 20 delle «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo».

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Il lavoro torna ad essere merce e quindi oggetto di compravendita; si ripristina nel 2003 la «interposizione parassitaria nelle prestazioni di lavoro». 

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Il paragone tra i 43 anni di vigenza della l. 1369/60 («Divieto di interposizione nelle prestazioni di lavoro») e il ventennio di vigenza della c.d. legge Biagi (ma più correttamente Maroni-Berlusconi) è impietoso.

La l. 1369/60 ha accompagnato un notevole sviluppo economico con limiti   sia alla frantumazione del sistema produttivo sia alla abnorme diffusione degli appalti e con essi lo sfruttamento della manodopera.

I 20 anni della nuova normativa si caratterizzano – invece - con stagnazione economica, produttività ferma, unita al dilagare di appalti e subappalti e addirittura del riaffacciarsi con essi del lavoro «paraschiavistico».

Il giudizio  sul piano economico sociale  ci viene da due sociologi del lavoro di diverso orientamento.

 

Luciano Gallino – di sinistra – sintetizza in modo efficace il nuovo assetto normativo:

  • finalmente i datori di lavoro realizzano il sogno di impiegare nella loro attività economica molti dipendenti non propri, e verso i quali non hanno alcun obbligo;
  • finalmente possono utilizzare in azienda gli esseri umani e le loro energie lavorative come utilizzano la energia elettrica, con il tasto ON/OFF.

Luca Ricolfi – di centrodestra – nel suo libro «La società signorile di massa» ritiene che si sia affermato

«… un tipo nuovo di organizzazione sociale che si regge su tre pilastri: la ricchezza accumulata dai padri, la distruzione della scuola e università, una infrastruttura di stampo paraschiavistico …» riferendosi prevalentemente al sistema degli appalti .

Da pag. 71 a 86 precisa l’entità della infrastruttura paraschiavistica stimata in oltre 3 milioni di persone, la sua diffusione in tutti i settori economici e nei servizi; ne fà una analitica quantificazione per ogni settore di attività e così descrive la condizione di questi lavoratori:  «… addetti a mansioni pesanti, usuranti o sgradevoli, sottopagati, licenziabili in ogni momento …con la più o meno completa assenza di tutele giuridiche o sindacali (dalla mancanza di contratto ai contratti capestro) …» (pag. 77-78).

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  1. Il fenomeno interpositorio.

I cantori della legge Biagi, non solo politici e associazioni imprenditoriali ma anche parte della dottrina giuslavorista hanno indicato in essa  «fattori importanti di modernità» con la solita enfasi parolaia con la quale da sempre si accompagna la riduzione dei diritti: per una maggiore competitività, produttività, flessibilità, occupabilità...

Vediamo invece dove ci ha catapultato, partendo dalle affermazioni di Ricolfi sul sistema «paraschiavistico» e da quelle di Papa Francesco del 1º maggio scorso «ci sono ancora gli schiavi… i lavoratori vanno giustamente pagati, ogni ingiustizia che si fa al lavoratore è calpestare la dignità…».

La l. 1369/60 era attuazione del primo (su 4) dei principi fondamentali della «Carta di Filadelfia» del 1944, in occasione della Conferenza dell’OIL – Organizzazione Internazionale del Lavoro – cui partecipano rappresentanti dei datori, dei lavoratori e dei governi: è l’unica struttura tripartita nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite.

All’art. 1 è fissato il principio seguente «Il lavoro non è merce» con il corollario che, dunque, non può essere oggetto di compravendita.

Ad essere più precisi si torna indietro non di soli 80 anni ma al 1929 e  addirittura al  1860. Così descriveva John Steinbeck, in Furore del 1939, la condizione dei lavoratori nella  c.d. «grande crisi» negli Stati Uniti del 1929

«Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta centesimi, io mi accontento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti….E questo, per taluni, è un bene, perché fa calare le paghe rimanendo invariati i prezzi. I grandi proprietari giubilano…. Così tra poco riavremo finalmente la schiavitù….».

Steinbeck sembra anticipare persino il livore dei massmedia, che ha accompagnato gli interventi normativi del governo sui percettori del reddito di cittadinanza

«La gente comoda nelle case asciutte provò dapprima compassione poi disgusto, infine odio per la gente affamata…».

Nel 1860 un Avvocato importante in modo semplice e lineare affermava:

«… E’ accaduto così in tutte le epoche del mondo che alcuni hanno lavorato e altri hanno, senza lavoro, goduto di una gran parte dei frutti. Questo è sbagliato e non deve continuare …».

Era Abramo Lincoln e fu coerente: diventato Presidente degli Stati Uniti abolì la schiavitù e fu protagonista nella guerra di secessione degli Stati del sud che volevano mantenerla, invocando quella che oggi chiameremmo «autonomia differenziata».

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  1. La tutela giudiziaria.

L’intervento della Magistratura del lavoro sul fenomeno interpositorio (appalti e somministrazione) è apprezzabile, positivo ed efficace con tante luci ed una sola ombra nel 2016, eliminata successivamente da un intervento legislativo.

E’ stato subito ribadito dalla Cassazione (Sezioni Unite 22910/2006) che è principio fondamentale del nostro ordinamento quello secondo cui

«datore di lavoro è chi utilizza effettivamente le prestazioni del lavoratore… con la conseguenza che chi utilizza dette prestazioni deve adempiere a tutte le obbligazioni a qualsiasi titolo nascenti dal rapporto di lavoro …».

E precisa che

«… non può sostenersi che l’indicato principio di carattere generale ha perduto consistenza giuridica a seguito del D.Lgs 276/03 ….

… La disciplina indicata pur presentandosi come una innovazione …… si configura anche nell’attuale assetto normativo come una eccezione, non suscettibile né di applicazione analogica né di interpretazione estensiva …».

Insomma: una limpida applicazione del principio «abrogatio sine abolitione».

Principi ribaditi in molte decine di sentenze in questi due decenni e ben riassunti in Cass. 29889/19. Dopo aver

«… ricordato che la fattispecie in esame dell’interposizione di manodopera è regolata dall’art. 29 D.Lgs 276/2003 che … ha ribadito la sostanza del divieto di intermediazione e di interposizione nelle prestazioni di lavoro, dettando la disciplina degli strumenti leciti all’interno della vicenda interpositoria (appalti, somministrazione, distacco), nonché quella sanzionatoria nelle ipotesi di somministrazione irregolare e appalto non genuino …».

Ribadisce

«… La dissociazione tra datore di lavoro ed effettivo utilizzatore della prestazione è stata, dunque, storicamente contenuta dal legislatore e consentita solamente per ipotesi tipizzate al fine di trovare un contemperamento tra esigenze di flessibilità dell’organizzazione imprenditoriale e garanzie di tutela dei lavoratori. In particolare, il d.lgs n. 276 del 2003 non ha eliminato la figura della somministrazione irregolare di manodopera già vietata dall’art. 1 legge n. 1369/60, in armonia con la permanenza di principi di rango costituzionale volti a collegare al rapporto di lavoro subordinato e soltanto ad esso una serie di posizioni di vantaggio…» (richiamando espressamente Cass. S.U. n. 22910 del 2006). Ma la sentenza contiene una notazione assai importante mai contenuta in nessuna precedente pronuncia: «…Né il legislatore avrebbe comunque potuto farlo, considerato che tra i criteri fissati dalla legge delega n. 30/03 vi era anche quello della “… conferma del regime sanzionatorio civilistico e penalistico previsto per i casi di violazione della disciplina della mediazione privata nei rapporti di lavoro, prevedendo altresì specifiche sanzioni penali per le ipotesi di esercizio abusivo di intermediazione privata nonché un regime sanzionatorio più incisivo nel caso di sfruttamento del lavoro minorile” (Cass. N. 3795 del 2013 e, quanto alla giurisprudenza penale, Cass. n. 27866 del 215)…»

Precisa infine che «…E’ onere del datore di lavoro, sia quello formale che sostanziale, dimostrare la sussistenza di una genuina intermediazione di manodopera…».

Applicando in  modo rigoroso l’art. 29 – appunto come eccezione – la giurisprudenza ha precisato i criteri di liceità dell’appalto:

una parte, per la verità minoritaria, ritiene

  • necessario che l’attività appaltata costituisca un servizio in sé compiuto ed in grado di fornire un autonomo risultato produttivo, riprendendo un concetto affermato da decenni relativamente alla l. 1369/60;

più in generale e sui punti specifici indicati  nell’art. 29 come condizione di legittimità dell’appalto di sola manodopera si è stabilito

  • che l’intervento dispositivo e di controllo dell’appaltante può esplicarsi sulle attività dell’appaltatore e non sulle persone da questo dipendenti, con la conseguenza «… che una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore alla organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane priva di rilievo ogni questione inerente al rischio economico e all’autonoma organizzazione del medesimo …» (Cass. 11720/2009, Cass. 17444/2009);
  • che il rischio economico sia reale, conseguente la combinazione dei vari elementi costitutivi dell’impresa, legato all’andamento produttivo ed al mercato: e non è certo sussistente, quando è predeterminato e stabile il costo del servizio appaltato ed esso coincide con il pagamento delle ore lavorative.

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  1. Azione di accertamento e non costitutiva.

      Una ulteriore importante precisazione di Cass. 17540/2014 del 22 ottobre 2014 riguarda la qualificazione della azione diretta a far valere l’illecita interposizione per violazione degli artt. 21 e 29 D.Lgs.  276/2003.

E’ azione di accertamento della nullità e non costitutiva.

«… Né tragga in inganno la terminologia adottata dal legislatore che, nel parlare di «costituzione del rapporto» (anziché di suo mero accertamento) sembrerebbe evocare un’azione costitutiva e, quindi, un’ipotesi di mera annullabilità: in realtà il prevedere espressamente che tale azione può essere esperita anche soltanto nei confronti dell’utilizzatore, esclude in radice che quella prevista sia un’ipotesi di annullabilità anziché di nullità, non potendo la prima essere pronunciata se non in contraddittorio di tutte le parti del contratto da annullare …».

Esattamente come ogni azione di accertamento essa è imprescrittibile, tranne i diritti conseguenziali, e la nullità insanabile.

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Come anticipato c’è una pesante ombra nella giurisprudenza: una rilevante sentenza della Cassazione la n. 17969/2016 del 13 settembre 2016 – seguita da molte altre conformi – con una evidente forzatura dell’art. 27, 1° comma D.Lgs 276/2003 ha affermato questo principio

«… Nei casi di costituzione d’un rapporto di lavoro direttamente in capo all’utilizzatore, ai sensi del D.Lgs n. 276 del 2003, art. 27, comma 1, ossia somministrazione irregolare, gli atti di gestione del rapporto posti in essere dal somministratore producono nei confronti dell’utilizzatore tutti gli effetti negoziali anche modificativi del rapporto di lavoro, loro propri, ivi incluso il licenziamento, con conseguente onere del lavoratore di impugnare il licenziamento nei confronti di quest’ultimo ai sensi della L. n. 604 del 1966 art. 6 …».

La norma vale anche per gli appalti illeciti stante l’esplicito rinvio ad essa dell’art. 29, comma 3bis.

Per la verità questo nuovo orientamento della Cassazione – cui ovviamente si è adeguata la giurisprudenza di merito – più che interpretare la norma ha provveduto ad integrarla aggiungendo  alle previsioni «costituzione e gestione del rapporto» che debbono intendersi «come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione» anche la risoluzione, ovvero il licenziamento, assente nella norma.

Tale orientamento si è posto in frontale contrasto con quello pluridecennale della Cassazione secondo cui il licenziamento intimato dal fittizio datore di lavoro è a «non domino», giuridicamente inesistente, e dunque inidoneo a risolvere il rapporto di lavoro con il reale datore.

Il nuovo orientamento ha avuto un impatto enorme nel contenzioso: con il paradosso giuridico che il breve termine di decadenza ha inciso su una azione di accertamento di illecita interposizione imprescrittibile, rendendola assai difficoltosa e spesso vanificandola.

Una parte della giurisprudenza di merito ha ritenuto necessaria, a pena di decadenza dalla azione, addirittura la impugnazione nei 60 giorni dal licenziamento del datore interposto anche nei confronti del datore di lavoro reale!

In più, nei rari casi in cui il lavoratore impugnava il recesso nel breve termine e nei confronti di entrambi, il reale datore poteva far valere la sussistenza di una giusta causa e di un giustificato motivo, oggettivo e soggettivo, posta a base del licenziamento dal datore fittizio.

E’ intervenuto, provvidenzialmente stavolta, il legislatore.

Con l’art. 80bis della legge 77/2020 ha posto una norma di interpretazione autentica che dell’art. 38 D.Lgs 81/2015 – che con identica formulazione ha sostituito l’art. 27 della legge Biagi – del seguente tenore

«… il secondo periodo del comma 3 dell’art. 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento».

Curiosamente non vi è stata alcuna opposizione a tale proposta dei cinque stelle approvata tranquillamente e  nessun commento in dottrina: è la prima volta che se ne parla in un convegno. Alcuni amici ipotizzano che gli altri parlamentari …… non avevano capito il significato della norma!

Dunque il licenziamento intimato dal fittizio datore di lavoro nell’appalto illecito è tornato ad essere giuridicamente inesistente.

Stante la sua natura di «interpretazione autentica» la norma si applica ovviamente a tutti i giudizi in corso, con l’ovvia salvezza del giudicato.

Addirittura anche in sede di giudizio di rinvio dopo che la Cassazione aveva fissato il principio di diritto opposto!

Nella recente sentenza  n. 3135/2021 del 1 ottobre 2021, la Corte di Appello di Roma – giudice di rinvio – era chiamata a dare applicazione al principio di diritto enunciato dalla Cassazione che, confermando l’illecito appalto, aveva annullato la precedente sentenza di appello relativa alla inidoneità del licenziamento del fittizio datore a risolvere il rapporto, ribadendo che tra gli atti di costituzione e gestione del rapporto rientra anche il licenziamento: in quel caso, appunto era intervenuto il recesso dell’appaltatore.

La Corte di Appello – sostanzialmente confermando la precedente sentenza cassata – così argomenta:

«… 5. Come noto, l’obbligo del giudice di rinvio di uniformarsi alla regula iuris enunciata dalla Corte di Cassazione a norma dell’art. 384 c.p.c. viene meno quando la norma da applicare, in aderenza al principio di diritto, sia stata successivamente sostituita per effetto di «jus superveniens», comprensivo sia dell’emanazione di una norma di interpretazione autentica sia della dichiarazione di illegittimità costituzionale (ex multis Cass. n. 13873/2012; n. 18824/2008, n. 12095/2007, n. 23169/06). In altri termini, «… se è vero che il principio di diritto enunciato dalla sentenza rescindente a norma dell’art. 384 c.p.c. è vincolante per il giudice di rinvio, tale regola soffre eccezione quando la norma da applicare sia stata successivamente abrogata, modificata o sostituita per effetto di jus superveniens» (così Cass. 9 dicembre 1997 n. 12465, Cass. 15 giugno 1995 n. 6737), dovendo in questo caso farsi applicazione, rispetto ai fatti già accertati nelle precedenti fasi del processo, di detto «jus superveniens».

6. Tenendo conto della norma interpretativa di cui all’art. 80-bis d.l. n. 34/2020, va escluso che tra gli atti di «gestione» del somministratore possa (evidentemente) comprendersi il recesso datoriale dal rapporto di lavoro. Ne consegue che il rapporto di lavoro subordinato fra le parti deve ritenersi tuttora in atto, poiché il licenziamento intimato da GME non è (né può ritenersi in forza della norma di interpretazione autentica) imputabile a GSE.

7. Il recesso di GME è dunque tamquam non esset. Ed invero, anche secondo il «diritto vivente» relativo alla disciplina anteriore, il licenziamento intimato dal soggetto interposto è giuridicamente inesistente in quanto proveniente a non domino…… come tale assolutamente non idoneo a produrre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, che pertanto perdura alle dipendenze dell’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative …».

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  1. La giurisprudenza sulla somministrazione.

Per completezza, benchè sia un istituto diverso, è utile dar conto anche della giurisprudenza sulla somministrazione.

E’ bene premettere che le dimensioni della somministrazione – come già rilevato -  sono notevolmente inferiori rispetto all’appalto: riguarda poche decine di migliaia di lavoratori mentre negli appalti si stima ne siano impiegati circa  un milione e mezzo.

Ed il motivo è semplice: la somministrazione è comunque assai meno conveniente.

Infatti l’art. 23 legge Biagi prevede la parità di trattamento economico e normativo tra i dipendenti del somministratore e dell’utilizzatore e il D.Lgs. 80/2015, art. 35, ha mantenuto tale previsione: peraltro impossibile da eliminare visto che i somministrati lavorano a tutti gli effetti presso l’utilizzatore e sotto la sua direzione e controllo.

Anche per la somministrazione dobbiamo evidenziare il positivo intervento della Corte di Cassazione con le sette sentenze del luglio 2022 (dalla 22861  alla 23531) con le quali si recepiscono i principi della Corte di Giustizia Europea che nel 2020

  • ha imposto all’Italia di preservare la natura temporanea dell’esigenza produttiva per legittimare la somministrazione (requisito escluso dalla precedente giurisprudenza della Cassazione),
  • di evitare l’assegnazione di missioni successive presso la stessa azienda del lavoratore, così disattentendo gli scopi della Direttiva nei quali è compreso quello di favorire la costituzione di un rapporto di lavoro stabile e non di precarizzarlo.

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  1. Tutto bene dunque?

Assolutamente no.

Il pur positivo intervento della Magistratura del lavoro, e sempre più spesso di quella penale, è del  tutto inidoneo ad arginare o limitare il dilagare del fenomeno interpositorio e lo sfruttamento dei lavoratori che da esso deriva.

Che è causato:

  • innanzitutto dal fatto che l’appalto è irresistibile per il suoi enormi vantaggi economici (costi retributivi e previdenziali più che dimezzati e niente diritti per i lavoratori utilizzati);
  • dallo stato di soggezione, e ricattabilità, dalla inesistente o irrilevante sindacalizzazione degli addetti, dalla eliminazione della tutela reale per i licenziamenti arbitrari;
  • cui va aggiunto il diffusissimo fenomeno delle c.d. «conciliazioni tombali», termine funereo per precisare che c’è proprio la tomba per i diritti dei lavoratori: in ogni successione o cambio di appalto, é sempre prevista ogni rinuncia anche nei confronti dell’appaltante che sempre è parte delle conciliazioni;
  • infine dalle lacune e inadeguatezza della normativa.

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Sulla irresistibilità rileviamo solo che non si sottraggono alla infinita catena degli appalti e subappalti né l’eccellenza della attività industriale né il sistema bancario e assicurativo.

Si pensi alla Cantieristica navale ed alle cronache di queste settimane

«Porto Marghera, 2 mila schiavi nei cantieri», titolano «il fatto» e altri giornali del 29.03.2023, riferendo della indagine della Guardia di Finanza che «…ha scoperchiato un quadro drammatico …».

Oppure altro titolo sempre de «il fatto» «…5 euro l’ora o niente: i fantasmi della manovalanza Fincantieri…».

Basta solo ricordare i dati relativi al rapporto fra dipendenti «diretti» (cioè «propri») e quelli «indiretti» (delle coop. appaltatrici) che lavorano  nei 7 cantieri sparsi nella penisola del gruppo Fincantieri.

  • Monfalcone: circa 1.600 diretti e 5-8.000 indiretti
  • Marghera: 1.000 diretti e 4 mila indiretti

e così via.

Insomma al totale di circa 6.500 dipendenti propri si aggiungono 23 – 26 mila delle cooperative o società appaltatrici.

Delle Banche basta dire che il costo lordo del lavoro di un dipendente diretto per le attività di solito del più basso livello parte da 23 euro lordi l’ora in su, mentre le stesse attività sono date in appalto  a  9 - 11 euro l‘ora ed i lavoratori poi percepiscono retribuzioni ancora inferiori (6 – 8 euro lordi) perché ridotte dalla «interposizione parassitaria» dell’appaltatore.

Questo, peraltro, spiega il motivo della opposizione al  «salario minimo legale» del padronato nel suo complesso (anche se appare incomprensibile – ad oggi – quello dei sindacati confederali che pure qualche responsabilità ce l’hanno per i bassi salari, addirittura diminuiti in Italia – unico paese dell’Occidente – negli ultimi 30 anni!).

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  1. Che fare?

Noi di Comma 2 ci occupiamo da vari anni non solo di analizzare le questioni più acute relative allo sfruttamento dei lavoratori e della demolizione dei loro diritti ma di fornire soluzioni anche con interventi legislativi per risolverle e ripristinare diritti.

Per contrastare il fenomeno degli appalti illeciti, delle false cooperative, della somministrazione abusiva di manodopera ed il conseguente sfruttamento dei lavoratori, nella precedente legislatura è stata presentata alla Camera la proposta di legge 1423 (Disposizioni in materia di cooperative, appalti, somministrazione e distacco) cui ha dato un rilevante contributo un nostro iscritto il prof. Avv. Piergiovanni Alleva.

Essa contiene

  1. una riforma della l. 142/2001 in tema di cooperative e di trattamento economico e normativo di soci lavoratori, oltrechè una importante modifica del D.Lgs. 220/2002 in tema di ispezioni ministeriali finalizzate ad accertare la effettiva realizzazione del fine mutualistico e ad evitare i sistemi di sfruttamento  delle cooperative spurie;
  2. una incisiva modifica dell’art. 29 della legge Biagi.

Viene infatti specificato che l’appalto «labour intensive», cioè consistente essenzialmente nelle prestazioni lavorative, è lecito solo se riguarda attività dei prestatori in possesso di competenze specifiche e diverse da quelle dei dipendenti dell’appaltante;  inoltre è ristabilita - ovviamente negli appalti endoaziendali leciti – la parità di trattamento economico e normativo tra i dipendenti del  committente e quelli dell’appaltatore.

Come è noto la parità di trattamento è prevista nella somministrazione (art. 35, 1º comma d.lgs. 80/2015, così come vi era nell’art. 23 D.Lgs. 276/2003) ciò spiega la enorme differenza quantitativa nell’utilizzo dei due istituti: poche decine di migliaia di lavoratori nella somministrazione, circa un milione e mezzo negli appalti.

Abbiamo tentato di «stralciare» questa ultima previsione che – a mio avviso – fa venir meno la grande maggioranza degli appalti: l’obbligo della parità di trattamento non consente più di scaricare sui bassi salari (e pochi diritti)  dei lavoratori dipendenti delle coop. o aziende appaltatrici, ma incide così solo sui profitti. Ed in genere gli imprenditori i profitti se li tengono ben stretti invece di condividerli con altri colleghi.

Il tentativo di farla approvare dal governo precedente non ha avuto esito.

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  1. La impunità delle Amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici economici.

Ultimo – ma non meno rilevante dei problemi – la sostanziale impunità della Amministrazione dello Stato, degli Enti pubblici economici e delle società partecipate (del Tesoro o Enti locali) nel fenomeno interpositorio illecito.

Ed è un fatto grave proprio per l’uso massiccio che esse fanno sia della tipologia di lavoro precario che degli appalti.

Grandi centrali del precariato e di appalti illeciti sono proprio gli Enti pubblici e le società partecipate che suppliscono così alla carenza di organici e nel frattempo lucrano  sul costo della manodopera.

Basti pensare alla procedura di infrazione che la Commissione UE ha avviato a metà aprile 2023 nei confronti dell’Italia  non solo per la sfruttamento degli stagionali ma anche per  l’abuso dei contratti a termine nel settore pubblico (insegnanti, personale amministrativo tecnico e ausiliario nelle scuole pubbliche, operatori sanitari, personale del settore dell’educazione artistica e musicale, degli istituti pubblici di ricerca, operatori forestali…).

Per gli appalti illeciti - come pure per la somministrazione irregolare ed i contratti a termine illegittimi – sia l’art. 36 d.lgs. 165/2001 sia l’art. 19 D.Lgs. 175/2016 impediscono la costituzione del rapporto di lavoro: quindi il grande  bacino di precarietà e di appalti illeciti è destinato a permanere e ad espandersi proprio per l’impunità di cui godono le aziende pubbliche.

Proponiamo il ripristino della applicazione generalizzata della sanzione costitutiva, già prevista dalla l. 1369/60, o perlomeno la estensione della sanzione prevista dall’art. 29, comma 3bis, almeno agli enti pubblici economici ed alle società partecipate nelle  quali il rapporto di lavoro è in tutto e  per tutto di natura privatistica.

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8. Il panorama  sociale e politico attuale.

Non è confortante.

In vista non  ci sono grandi mobilitazioni  per eliminare o ridurre il «sistema paraschiavistico» collegato al fenomeno interpositorio, e il conflitto sociale è spesso addirittura demonizzato.

Si fa un gran parlare e ci si indigna per il dilagare della precarietà ma essa è oramai fenomeno strutturale nel mercato del lavoro.

Infatti precario non è solo chi ha un contratto a termine o è utilizzato  negli appalti, ma anche chi ha un contratto di lavoro a tempo indeterminato: è stata infatti eliminata la stabilità reale nel posto di lavoro con la abolizione dell’art. 18 l. 300/70 per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 (con il d.lgs. 23/2015 c.d. Jobs Act) e drasticamente ridotta la sua applicazione per tutti gli altri (con la l. 92/2012, c.d. Fornero).

Oggi la coppia Meloni/Calderone al governo, in perfetta continuità con Berlusconi/Maroni del 2003 e con Renzi/Poletti del 2015,

  • estende a ben 15 mila euro l’anno – per alcuni settori - l’uso dei Voucher, la forma più estrema di mercificazione del lavoro;
  • modifica il codice degli appalti liberalizzando il c.d. «subappalto a cascata», quindi ulteriore frammentazione del ciclo produttivo e moltiplicazione della catena degli appalti;
  • in risposta, e sfida, alla Commissione UE che apre una procedura di infrazione con l’Italia per «abuso di precariato», addirittura lo amplia portando a 24 mesi, i  contratti a termine sostanzialmente liberi in quanto per i 12 mesi successivi al primo autorizza la contrattazione collettiva e, in mancanza, gli accordi individuali – sempre consenzienti – ad un rinnovo con motivi generici;
  • persino il timido tentativo di togliere segretezza all’algoritmo che regola l’attività dei rider – e dei lavoratori delle piattaforme digitali - del precedente governo viene eliminato escludendone la applicazione «ai sistemi protetti da segreto industriale», come noto sempre presenti nella attività delle piattaforme.

Il nostro impegno di giuslavoristi deve continuare con la analisi e denuncia del fenomeno, e con le proposte per contrastarlo: l’assuefazione ad esso infatti  è il prologo al suo avallo.

Per questo chiudo citando Guglielmo I d’Orange, noto come Guglielmo il Taciturno, che questa affermazione l’ha fatta:

«Non è necessario sperare per intraprendere né riuscire per perseverare».

Roma, 12 maggio 2023