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Roma 17 Giugno 2017 - Manifestazione Piazza San Giovanni intervento di Alberto Piccinini.

Come tutti sapete sono state raccolte milioni di firme perché si tenessero tre referendum sui licenziamenti, appalti e voucher.

Il primo di questi tre, il più temuto, quello che si prefiggeva di ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in tutti i casi di licenziamento illegittimo, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale con una sentenza quantomeno opinabile, se è vero – come è vero – che la decisione è stata presa solo a maggioranza, con parere contrario di altri giudici, relatrice compresa.

In questo modo ci hanno sottratto la possibilità di cancellare con un colpo di spugna una delle “perle” del Governo Renzi, il contratto a tutele crescenti - ipocrita sin dal suo nome, evocativo di tutele che al contrario vengono sottratte - che ci viene venduto come il contratto che ha portato alla stabilità il lavoro precario, quando invece è quello che ha precarizzato il contratto a tempo indeterminato.

L’art. 18 è stato eliminato per tutti quelli che vengono assunti dopo il 7 marzo 2015, che possono essere licenziati per un motivo economico fasullo o per un motivo disciplinare irrisorio, perché in questo casi lo stesso giudice che dichiara illegittimo il licenziamento lo deve lo stesso convalidare, riconoscendo un modesto indennizzo già prefissato dalla legge, ridotto alla metà con un’offerta di conciliazione che il datore di lavoro può fare per chiudere subito la partita ed evitare un’eventuale causa.

Si è voluta monetizzare la perdita del posto di lavoro ma tale monetizzazione non ha nemmeno i requisiti previsti dalla normativa comunitaria, perché non è adeguata, non è effettiva, non è dissuasiva, come invece impone la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea.

Ma la battaglia sull’art. 18 non può essere abbandonata. Ognuno farà la sua parte: i sindacalisti nei luoghi di lavoro, gli avvocati nelle aule di tribunale.

E sarebbe bello che le forze politiche vecchie e nuove, maggioranze e minoranze, che affermano di voler restituire dignità al lavoro, si accordassero per abrogare, puramente e semplicemente, l’intero decreto legislativo 23.

Ma torniamo agli altri due referendum “salvati” dalla Corte Costituzionale: appalti e voucher, dichiarati ammissibili: il 28 maggio 2017 si sarebbe dovuta tenere la consultazione, evitabile solo da un’abrogazione pura e semplice della disciplina sottoposta al referendum.

E così è stato per entrambe le normative, con la conseguenza che l’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione il 27 aprile ha stabilito di non dare corso alla consultazione proprio con questo motivo: “l’intervento legislativo si è mosso nel senso dell'abrogazione secca di tutte le disposizioni fatte oggetto dei due quesiti referendari, senza il corredo di altra disciplina delle stesse materie”.

Un mese dopo, a referendum scongiurato, la maggioranza parlamentare, ha tirato fuori dal cilindro, sotto mentite spoglie, un’altra disciplina che di fatto ripristina i voucher appena abrogati.

A me non interessa ascoltare la lezione di quelli che ci bacchettano, spiegandoci che però, in certi casi i voucher servono.

E non mi interessa non tanto perché sono le stesse persone che tacevano quando, nell’ambito della vecchia legge, il lavoratore che mi ha preceduto (Mykhaylo) perdeva tre dita sotto una pressa o una mia assistita (Tatiana), che ha lavorato per tre mesi nei turni di un noto Fast Food di Bologna, nel momento in cui è rimasta incinta è stata lasciata semplicemente a casa, dato che non c’era nemmeno bisogno di licenziarla.

Ciò che mi interessa, come avvocato, è la modalità scelta per introdurre la nuova legge.

Si è volutamente bypassato il controllo della Corte di Cassazione, diretto a valutare se i principi ispiratori e i contenuti essenziali della nuova disciplina andavano nella direzione indicata dal referendum.

In caso contrario, infatti, la Corte di Cassazione avrebbe dovuto confermare il referendum per consentire al popolo sovrano di pronunciarsi sulla legge sopravvenuta, come ha stabilito la sentenza n. 68 del 1978 della Corte Costituzionale.

Oltretutto la nuova disciplina non è neppure stata introdotta a seguito di un confronto con le forze sociali o di un serio e approfondito dibattito nelle commissioni parlamentari, magari misurandosi con il progetto di legge in materia della CGIL, ma con un emendamento “blindato” inserito nella legge di conversione del D.L. 50/2017 di marzo sulla manovra correttiva alla legge Finanziaria richiestaci dalla UE.

È, come abbiamo gridato nel corteo questa mattina, uno schiaffo alla democrazia, perché si è aggirato il vaglio dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione e si è andati contro una sentenza della Corte Costituzionale, il tutto al nobile scopo di impedire che i cittadini andassero alle urne.

Ciò che è avvenuto è gravissimo perché sono stati violati i principi della democrazia e della sovranità popolare (artt. 75 e 1 Cost.) e sovvertito l’ordinato esercizio dei poteri della magistratura e del legislatore.

Sono qui perché rappresento l’associazione Comma2 (nome che richiama il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, che ognuno dovrebbe imparare a memoria), composta prevalentemente - ma non solo - da avvocati del lavoro che hanno fatto una scelta di campo dalla parte dei lavoratori.

Giovedì scorso, dopo l’approvazione della legge sulla manovra correttiva anche da parte del Senato, abbiamo chiesto al Presidente della Repubblica Mattarella di non controfirmare la legge di conversione del decreto legge 24 giugno del 2017 n. 50.

Questa piazza, molto di più della nostra lettera, deve essere custode dei diritti fondamentali della nostra democrazia ed avere cura che la Costituzione, che è entrata nelle fabbriche con lo Statuto dei Lavoratori e che ne è uscita con il Jobs Act, resti il punto di riferimento del comportamento delle Istituzioni e magari torni, con leggi ad essa ispirate, a presidiare i diritti dei lavoratori.

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