La migrazione del lavoro

 

di Silvia Balestro

All’inizio era Soumayla Sacko. La sua storia ha destato il nostro interesse. Molti di noi hanno visto quegli stessi occhi in studio ed hanno ascoltato parole che raccontavano di un lavoro in nero, dell’amico o del cugino che provvede ad una assunzione “di fortuna” per consentire il rinnovo del permesso di soggiorno
Ovviamente per i più fortunati. Perché altri finiscono in balia di datori di lavoro che il permesso di soggiorno lo trattengono e lo restituiscono solo se lo straniero “si comporta bene”.
Senza permesso di soggiorno non solo non si ha diritto al lavoro, ma neppure alla casa e ad un nome. E infatti molti si fanno chiamare “Gianni” o “Lori” perché così è più facile farsi riconoscere e nello stesso tempo nascondersi.
E poi c’è il tentativo di rendere collettivi i bisogni, di svolgere magari attività sindacale, di andare dal “padrone” per rivendicare un orario più umano, la regolarizzazione del rapporto, il pagamento dello straordinario.
E poi succede che una sera incroci sulla strada quello stesso padrone italiano che ti spara addosso perché stai cercando del materiale di recupero per tentare di trasformare il luogo in cui dormi in una specie di casa, magari anche solo per provare ad avere un tetto.
All’inizio era stato così. Poi c’è stata la nave e un ministro che chiude tutti i porti e lascia più di seicento persone in mezzo al mare, perché i pomodori, in Italia, vogliono raccoglierli gli italiani.
Come donne, come uomini rimaniamo sconvolti da tutto questo.
Come avvocati ci interroghiamo sui rapporti tra le vite di questi migranti e la materia di cui ci occupiamo.
Le loro migrazioni “economiche” ci costringono ad interrogarci sugli strumenti a nostra disposizione per contrastare nuove forme di sfruttamento.
La nozione di discriminazione, l’art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, gli art. 43 e 44 del Testo Unico Immigrazione ci basteranno per tutelare queste vite?
La nuova legge per il contrasto al fenomeno del caporalato, la 199/2016, che ha riformulato il relativo reato potrà esserci utile?
Sarà sicuramente utile cercare di diffondere anche attraverso il nostro lavoro una cultura di accoglienza che ci faccia rimanere umani e chiamare i vari “Gianni” Mohamed e Abdul.
Perché dignità significa anche dare a ciascuno il proprio nome.