• Interventi

I lavoratori e la democrazia

Fulvio Perini

Ho terminato le mie attività di collaborazione con la parte lavoratori dell’Organizzazione internazionale del lavoro nel novembre 2015. Dalla primavera del 2016 mi sono impegnato nel comitato piemontese per la difesa della Costituzione nella battaglia per il NO alle modifiche costituzionali in una attività quasi esclusivamente rivolta ai lavoratori. Personalmente, c’era anche la curiosità di riscoprire un mondo che avevo lasciato anni prima.

Svolgerò il mio intervento su questa esperienza e su alcune riflessioni indotte.

Ebbi modo di conoscere come erano state licenziate le lavoratrici inidonee della Azimut di Avigliana (oltre 1100 lavoratori); chi erano i lavoratori posti in cassa integrazione alla Fiat Mirafiori con le loro inidoneità ed anzianità al lavoro, mentre contemporaneamente i 40 team leader della Fca serba di Kragujevac avevano evitato il licenziamento rispetto agli altri 800 colleghi venendo a Torino a fare formazione direttamente sulle linee di montaggio pagati con la paga serba di 320 euro più vitto ed alloggio; l’uscita da porte separate dei lavoratori stabili e dei lavoratori “somministrati” alla Teksid di Carmagnola (quasi 1000 addetti, con il volantino per il NO ben accolto alla porta degli indeterminati e rifiutato alla porta dei somministrati; sempre con il rifiuto diffuso a ricevere il volantino da parte dei consulenti operanti nel grattacielo sede centrale di Intesa San Paolo (circa 500, distinguibili dai normali lavoratori bancari perché tutti mediamente un po’ più giovani vestiti bene e con la borsa del notebook a tracolla, alcuni di loro operanti in equipe all’ufficio progettazione di nuovi piani finanziari con a fianco il tabellone che indica i giorni, le ore, i minuti primi ed i minuti secondi di attività dall’inizio del lavoro con a fianco il segnale giallo che diventerà verde una volta terminato il progetto); ed ancora, come il capo possa cambiare il programma di software che controlla la macchina di allestimento dei semilavorati per la confezione del pneumatico alla Pirelli ed interrogato sulle ragioni risponde(va) è “è una mia prerogativa, posso farlo anche quando sono in vacanza in Thailandia” oppure la conversazione con un controllore delle ferrovie che lavora con il tablet e deve fare domanda per qualche giorno di ferie per via digitale ricevendo la risposta negativa in modo automatico dall’algoritmo preposto ma sapendo che il capo è in grado di bypassare l’algoritmo e basta arruffianarsi per risolvere il problema.

In molti altri luoghi abbiamo svolto una attività esterna senza collegamenti. In un solo luogo siamo riusciti a far promuovere una assemblea sulla Costituzione. Il tentativo di dare vita ad un movimento di rappresentanti sindacali (RSU) è stato osteggiato dal sindacato. L’aspetto che mi ha sorpreso è il venir meno di una autonomia dei rappresentanti aziendali, in passato abbastanza diffusa. Il timore di rappresaglie tocca anche loro, quando non sono in piena sintonia con i dirigenti sindacali.

Non siamo invece riusciti a svolgere attività rivolte ai ghostworkers dei lavori non standard, non essendo il loro lavoro un luogo di comunità riconoscibile.

Ancora oggi le informazioni, ormai pressoché quotidiane, sulle condizioni estreme delle lavoratrici e dei lavoratori precari sono numerose. Leggiamo libri, romanzi ed articoli di quotidiani tesi a suscitare sentimenti di compassione o di indignazione. Questa condizione era stata ampiamente descritta vent’anni fa da Richard Sennet nel libro “L’uomo flessibile”, ma la sinistra ed il sindacato pensavano ancora ad un processo di trasformazione del lavoro gestibile. Nel programma elettorale della sinistra per le elezioni regionali dell’inizio del 2000 si proponeva l’obiettivo della “flessibilità amica”.

Ora si pone l’accento sul grave carattere di sfruttamento, mentre Sennet evidenziava gli aspetti sociali e psicologici del fenomeno. Solo Luciano Gallino, nel libro “Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità” del 2008 evidenziava la gravità del problema affermando: “Dire che la politica dell’ultimo decennio ha drammaticamente sottovalutato la condizione del lavoro flessibile significa tenersi molto al di sotto delle righe”.

Nella esperienza della campagna per il NO era, almeno per me, evidente che i lavoratori che incontravo non pensavano minimamente di avere un destino comune, non per ragioni ideologiche o per il venir meno di una cultura politica, solo perché non avevano idea o meglio avevano forse solo timore di quale potesse essere il loro futuro a breve. Questione già presente 25 anni fa in una inchiesta tra alcune decine di giovani in relazione alle possibilità di lavoro autonomo, come si diceva allora, di seconda generazione. Non sapevano cosa rispondere alla domanda “cosa farai tra sei mesi?”.

Mentre nei mercati dei quartieri popolari, frequentati al mattino da persone anziane, l’attività di informazione era difficile non era così tra i lavoratori, ma colpivano le motivazioni: bisognava farla pagare a Renzi, i contenuti in rapporto alla Costituzione venivano dopo.
Guido Bodrato commentò il risultato referendario affermando “la spallata dei dimenticati”. Una semplice analisi dell’andamento del voto – simboleggiato, ad esempio, nella comparazione tra centro e periferie – tende a confermare questo giudizio. Ma il voto amministrativo a Torino aveva evidenziato che i dimenticati che ancora partecipavano al voto si erano orientati per un voto non rivolto o solo in parte rivolto alle sinistre.

Tralasciando ogni valutazione sulle organizzazioni politiche e sindacali sorte in rappresentanza dei lavoratori, vorrei portare il mio contributo su quali possono essere le attuali “ragioni di ordine economico e sociale” che non solo limitano libertà ed eguaglianza ma hanno determinato la più grande diseguaglianza tra cittadini con il venir meno della partecipazione dei lavoratori – residualmente individuale ma mai collettiva – alla vita politica e sociale.

Le ragioni sono molte ma, rispetto al lavoro, credo debba essere posto il centro non solo la perdita del controllo – cognitivo, prima ancora che sindacale o politico – della propria prestazione di lavoro ma la perdita di senso di tanta parte della propria esistenza. La preoccupazione di Emile Durkheim sugli effetti della divisione crescente del lavoro si è avverata.

Mentre l’organizzazione fordista del lavoro era fondata su economie di scala, intensità e disciplina del lavoro, oggi, la produzione flessibile si fonda sulle nicchie di mercato ciascuna con una sua self-life e, per questa ragione, l’organizzazione del lavoro si fonda sulla adattabilità e sull’arbitrio. Questo sistema funziona se il lavoratore è ricattabile e non ci sia nessuno che lo difenda dal ricatto, mantenendo invece – ma sempre meno – la tutela ex post se il padrone esagera.

Ma questo modello nega alla radice una società che voglia congiungere allo sviluppo economico lo sviluppo umano. Le ricerche scientifiche internazionali sul disagio dei lavoratori, ed ormai delle popolazioni, si è rivolto prevalentemente agli aspetti psicologici; è interessante che uno degli ultimi numeri della rivista Esprit sia dedicato alla perdita di attenzione e di memoria nella popolazione francese, anche giovanile.

Va ripresa la ricerca e la riflessione sul senso del lavoro oggi.

Il “lavoro non è una merce”, recita la Dichiarazione di Filadelfia del 1944. Ma per gli esseri umani che cercano di vivere vendendo una parte del loro tempo il lavoro è merce. La Costituzione ha posto limitazioni importantissime e proposto nuove strade di emancipazione per i lavoratori. Il capitalismo reale sta cancellando nei fatti queste norme, incompatibili con il modello ideologico della crescita competitiva e con la decrescita reale mascherata dal mercato del denaro. Anche nella prossima campagna elettorale saranno al centro temi importanti come la questione fiscale, il diritto alla dignità ed al reddito del lavoratore, la protezione e la sicurezza sociale, il pareggio di bilancio a fronte del debito crescente. La partecipazione attiva dei lavoratori non è affatto scontata.

Il disagio tra i lavoratori è diffuso ma è ancora più diffuso il senso di impotenza: va male, ma non possiamo fare nulla. Ci lasciano la possibilità di lamentarci e ci offrono dei tribuni per poterci sfogare. Come sempre, le diseguaglianze creano gerarchie e quando non è possibile prendersela con chi sta sopra è facile prendersela con quelli che stanno sotto. Occupy Wall Street del “noi 99, voi 1” ha avuto vita breve.

Il fatto che un lavoratore su 10 non possa esercitare i diritti politici perché immigrato e che metà dei lavoratori dei settori privati non possa più esercitare i diritti passivi perché potrebbe pagarla sta pesando duramente. Una giovane precaria può partecipare alla battaglia per il NO, ma quando le viene chiesto di fare la rappresentante di lista risponde “già, io chiedo il permesso e so che non mi rinnoveranno il contratto”. Figuriamoci candidarsi e partecipare pubblicamente alla azione politica.
C’è la paura, ma comincia anche ad esserci una consapevolezza più diffusa e quando prende forma, sia pure embrionale ed episodica, non trova accoglienza nelle istituzioni sindacali e politiche. È la differenza con l’America di Sanders ed il Regno Unito di Corbin.

Per terminare vorrei presentare opinioni e domande personali su alcuni aspetti forse utili per guadagnare la partecipazione dei lavoratori. La categoria della rappresentanza è importante ma insufficiente, c’è bisogno di organizzazione e di vita associativa tra lavoratori:

1. Per contrastare una organizzazione produttiva dove le informazioni sono sempre più centralizzate e riconoscibili – anche, vorrei dire soprattutto, quando il lavoro diventa agile o smart - è necessaria la trasparenza in modo che il lavoratore conosca, controlli e intervenga in modo attivo sulle decisioni. Ancora una volta il contributo di Bruno Trentin – nel suo ultimo libro sul lavoro, non nel diario – è molto importante. Ed attuale. Anche le riflessioni di Luciano Gallino su democrazia ed automazione continuano ad essere un aiuto importante. Gli strumenti informatici lo permettono eppure le bacheche sindacali sono ferme al tabellone con i comunicati appiccicati con le puntine da disegno.

2. Con l’attuale divisione ed organizzazione del lavoro senza una nuova dimensione collettiva tra lavoratori tutto diventa arduo, probabilmente impossibile. Va riscoperto il valore della collaborazione. Dopo la sconfitta alla Fiat del 1955, la Fiom si è impegnata per 13 anni prima di giungere al superamento delle Commissioni Interne e la affermazione dei delegati di reparto, del gruppo omogeneo. Ed eravamo ad organizzare lavoratori che stavano assieme tutti i giorni, magari a mezzo metro di distanza. Oggi è tutto più difficile, ma se non si affronta questo problema si cancella un importante, forse decisivo, punto di partenza per la partecipazione. L’attuale sistema delle elezioni delle Rsu serve a contare i voti per stabilire quale sindacato conta di più mentre le condizioni di lavoro – uguali per tutti i lavoratori – non contano nulla. Inevitabilmente la rappresentanza dei lavoratori viene sequestrata dalle burocrazie sindacali e la deriva corporativa si va estendendo. Welfare … diritto di assemblea … diritto di pensarla come un altro sindacato … c’è bisogno di unità tra i lavoratori.

3. Per poter riportare al centro la collaborazione e cooperazione tra lavoratori va stabilito che l’oggetto del lavoro e le condizioni per la sua realizzazione in termini di tempo, di distribuzione e di qualità del lavoro debbano essere le determinanti dei rapporti di lavoro. Aprendo così le possibilità di spazi collettivi per l’autodeterminazione. Per Trentin questi aspetti diventano la condizione per la sopravvivenza di un contratto di lavoro che non regredisca verso un rapporto di tipo servile. Io la condivido pienamente. Conosco le obiezioni, ma il realismo del calcolo non può determinare la cancellazione di ogni possibilità di progettazione. Ogni conquista dei lavoratori ha comportato decenni di battaglie delle idee e di lotte concrete, basti pensare allo statuto dei lavoratori (1952-1970) o al superamento delle mutue per il servizio sanitario nazionale (1956-1978).

4. Infine, vorrei ricordare che siamo nella società mondo. Le controriforme del lavoro di Spagna, Italia, Francia, Argentina e Brasile, per stare ad oggi, hanno tutte le stesse caratteristiche: rendere i lavoratori ricattabili, indebolire i loro sindacati, ridurre le protezioni sociali.
Recentemente il Direttore dell’OIL ha dichiarato che più di un miliardo di lavoratori ha un reddito che non permette di vivere. Siamo a quasi cento anni dalla Costituzione dell’OIL che stabiliva il diritto al “living wage”. Il salario minimo è una battaglia decisiva a livello internazionale; vorrei ancora ricordare gli obiettivi dei movimenti – sindacali e politici – negli Usa ed in Inghilterra o, ancora più interessante l’azione di lotta a livello internazionale dei lavoratori del settore agroalimentare e della ristorazione. In Italia questo problema è crescente e non lo si risolve con i “salari di garanzia” in sostituzione dei minimi contrattuali.
Una parte assai ampia di lavoratori nel mondo svolge lavoro informale, senza riconoscimento pubblico e senza protezioni sociali: 4 miliardi di abitanti della terra sono senza protezioni e sicurezze sociali.
A decidere di tutto questo sono sempre meno gli Stati e sempre più dei poteri finanziari che controllano i mercati (No Logo). Quindici anni fa una inchiesta dell’OIL – mai ripetuta, non a caso – indicava che 62mila imprese multinazionali e transnazionali controllavano più del 30% del mercato mondiale ed occupavano meno dell’1% di lavoratori. Esattamente come per il living wage, è impossibile stabilire delle norme sui diritti dei lavoratori delle catene di subfornitura.

Far rivivere gli articoli della Costituzione nel sentire comune dei lavoratori e nel conflitto sociale e politico è decisivo per contrastare una declinante democrazia fondata sul consenso passivo. Ma ignorare i mutamento intervenuti nel contesto nazionale ed internazionale non mi pare più possibile.

 

 

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