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Le conciliazioni in sede sindacale

di Mauro Tagliabue

La conciliazione, sia in fase giudiziale che stragiudiziale, rappresenta uno strumento fondamentale ed indispensabile in materia giuslavoristica, che consente di prevenire la nascita di numerose controversie tra il lavoratore e il datore di lavoro, nonché di porre fine alle liti già insorte tra le stesse parti.
La centralità del verbale di conciliazione e la sua assoluta ineliminabilità all’interno del processo del lavoro rischiano tuttavia di essere minate da un utilizzo nella prassi sempre più distorto che viene adottato dalla parte “forte” del rapporto lavorativo.
Per definire un accordo conciliativo, e dunque immediatamente efficace e non impugnabile, occorre anzitutto che sia sottoscritto in sede “protetta”, ritenuta dal legislatore quale sede maggiormente funzionale a valutare l’effettiva conoscenza dei diritti assegnati al lavoratore ed a garantire che il suo consenso alla sottoscrizione di un accordo sia genuino e spontaneo.
Le sedi che meglio assicurano tale ruolo di protezione sono dunque: la sede giudiziale (nell’ipotesi in cui sia già stato instaurato un contenzioso), ovvero la sede sindacale, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro o ancora i Collegi di Conciliazione e Arbitrato.
La sede sindacale rappresenta in genere la strada prediletta dalle parti per la sottoscrizione degli accordi, vuoi per i costi ridotti, vuoi per ragioni di semplicità e speditezza della procedura. Indubbiamente, tuttavia, la stessa si espone a profili di maggiore criticità, per le ragioni di seguito analizzate. 

La sede sindacale - ove in linea teorica il lavoratore dovrebbe essere seguito da un soggetto che per sua natura riveste istituzionalmente il compito di assistere i lavoratori, il sindacalista, o quantomeno da un proprio legale – è divenuta ormai da diversi anni un luogo in cui alla tutela effettiva dei lavoratori si sostituisce un utilizzo della transazione, dal lato datoriale, quale strumento di tipo “preventivo”, volto cioè ad evitare l’insorgere di possibili futuri contenziosi ed in presenza di evidenti profili di illegittimità in merito al trattamento riservato al lavoratore, di cui il datore è perfettamente consapevole.Le questioni che presentano più criticità sono quelle della rinuncia a qualsivoglia pretesa a fronte del riconoscimento simbolico di qualche centinaio di euro o addirittura a fronte del pagamento di titoli dovuti per espressa previsione legislativa, quali TFR e competenze di fine rapporto, ovvero, in tema di cambio di appalto, allorquando si verifichi il subentro di una nuova società appaltatrice alla precedente e la transazione venga messo di fronte ad una richiesta di rinunciare ad ogni pretesa nei confronti del precedente datore di lavoro a fonte dell’impegno del nuovo datore ad una sua assunzione.

 

Trattasi di comportamenti ormai standardizzati e, sotto alcuni profili, ai limiti dell’illecito penale, che meritano un’attenta analisi, a partire dal soggetto che si mette in contatto con il sindacalista.In un contesto ideale ed astratto, è il lavoratore che – a fronte di una possibile violazione di un proprio diritto, quand’anche semplicemente presunta – contatta un sindacalista, che ha il compito di tutelarlo e rappresentarlo nelle sedi opportune.
D’altro canto, negli esempi sopra citati, non è mai il lavoratore a contattare il sindacalista che dovrebbe assisterlo, bensì è lo stesso datore di lavoro che contatta un sindacalista – il più delle volte compiacente – che, snaturato totalmente il proprio ruolo di garante dell’effettiva assistenza del lavoratore, si presta viceversa ad asservire le richieste del datore di lavoro. E ciò è strettamente collegato, oltre che alla perdita di centralità dei sindacati confederali, al diffondersi nel nostro paese di organizzazioni solo formalmente sindacali; ed è quanto l’art. 17 dello Statuto dei lavoratori, rubricato «Sindacati di comodo», intende vietare, ossia la possibilità per il datore di lavoro di “costituire o sostenere, con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori” (i cd. “sindacati gialli”).
Il tutto in un contesto nel quale le sigle sindacali “storiche” mostrano evidenti segnali di cedimento sul piano dei diritti sociali, prestandosi ad operazioni di tutela al ribasso dei diritti retributivi dei dipendenti.
La diffusione di tale fenomeno ha fatto in modo che la questione sia stata in numerose occasioni sottoposta al vaglio dei giudici, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità o meno di siffatte transazioni, e tali pronunce riguardano profili sia di ordine formale che sostanziale.
Da un punto di vista formale, diversi giudici di legittimità hanno rilevato che, in assenza di requisiti essenziali dell’atto, che non consentono allo stesso di rientrare nello schema negoziale della transazione, quest’ultima deve ritenersi radicalmente nulla; si tratta di vizi formali dell’atto talmente rilevanti che non consentono alle transazioni di essere qualificate come tali, e di conseguenza fanno venir meno anche il termine semestrale per la loro impugnazione previsto dall’art. 2113 c.c.
La non applicabilità del termine di impugnazione semestrale è stata confermata da una recente sentenza del Tribunale di Pavia (sent. n. 87/2022 del 14.3.2022 est. Ferrari), nella quale si legge “il termine di decadenza di cui al 2° comma dell’art. 2113 c.c. si applica solo qualora le rinunce e transazioni possano essere qualificate effettivamente tali”; tale pronuncia ha inoltre negato la riconduzione alla fattispecie della transazione al caso sottoposto al suo scrutinio: “deve escludersi il valore di transazione del verbale denominato di conciliazione in sede sindacale sottoscritto il 27.1.2017 atteso che esso non contiene l’identificazione della lite da definire ovvero quella da prevenire e l'individuazione dell'interesse del lavoratore, mentre è pacifico che tra il ricorrente e la (…), a rapporto di lavoro in corso, non vi fosse alcuna controversia nemmeno potenziale, né dal tenore della conciliazione risulta che il ricorrente abbia avuto consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili ed abbia manifestato il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi”.
Su un piano prettamente formale, dunque, affinché una transazione possa ritenersi validamente conclusa occorre che: 1) abbia ad oggetto una res dubia, e cioè che cada su un rapporto giuridico avente, almeno nella opinione delle parti, carattere di incertezza 2) nell'intento di far cessare la situazione di dubbio venutasi a creare tra loro, i contraenti si fa facciano delle reciproche concessioni.
In altre parole, una transazione, per essere qualificata come tale, deve avere ad oggetto la lite cui questa ha dato luogo o può dar luogo, e che le parti stesse intendono eliminare mediante reciproche concessioni (Cass. Civile, Sez. Lav., 28 aprile 2014 n. 9348).
La lite, la “res dubia”, la controversia che le parti intendono prevenire o a cui intendono porre fine, deve risultare in modo chiaro e circostanziato dalla transazione, unitamente alle reciproche concessioni, che sono il veicolo attraverso il quale si consente una nuova regolamentazione dei rispettivi interessi delle parti.
Nell’ipotesi in cui non venga in alcun modo indicato quale sia la res litigiosa, così come nel caso in cui sua assente il requisito delle reciproche concessioni, una transazione non potrà essere qualificata come tale, e non precluderà al lavoratore la possibilità di instaurare un giudizio per avanzare rivendicazioni di natura retributiva o di altra natura nei confronti del proprio datore di lavoro.
Sotto un profilo sostanziale, affinché una transazione possa ritenersi valida ed efficace è necessario che il sindacalista garantisca al lavoratore un’effettiva assistenza sindacale, in modo da scongiurare uno stato di inferiorità o soggezione tra lavoratore e datore di lavoro.
La mancanza dell’effettiva assistenza sindacale è causa di impugnazione della transazione, in questo caso da promuoversi - si ritiene, con ogni probabilità - entro il termine decadenziale di sei mesi di cui all’art. 2113 c.c.
Dinanzi ad una simile fattispecie, il giudice sarà dunque chiamato a verificare se al lavoratore sia stata fornita dal sindacalista un’effettiva assistenza, se gli siano state prospettate in modo chiaro quali fossero le rivendicazioni che il medesimo avrebbe potuto avanzare e le ragioni per cui fosse conveniente rinunziarvi.
Per compiere tale accertamento, si ritiene inevitabile dare ingresso ad una istruttoria testimoniale nel corso della quale potranno essere sentiti i sindacalisti e/o coloro che abbiano presenziato al momento della sottoscrizione della transazione, in modo da stabilire se l’assistenza fornita dal sindacalista sia stata effettiva o meno.
In particolare, non pare sufficiente verificare se al momento della firma sia stata data lettura del testo, ma approfondire ciò che ha preceduto e condotto a tale transazione, posto che sono stati accertati casi nei quali il sindacalista non solo non venne mai contattato dal lavoratore bensì direttamente dal datore di lavoro, ma addirittura mai ebbe precedenti contatti con il lavoratore che avrebbe dovuto assistere, mai venendo in contatto con il medesimo prima della firma del verbale.
Sotto un profilo contrattual-collettivo, rilevano i profili di rappresentanza dell’organizzazione sindacale firmataria del CCNL applicato dal datore di lavoro, con la precisazione che si tratta di una tematica di cui, nonostante recenti interventi, non è ancora ad oggi stata fatta luce.
Sul punto, l’art. 412 ter c.p.c. prevede che una conciliazione possa concludersi “presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”, il che non consentirebbe a quei datori che applicano un contratto collettivo sottoscritto da organizzazioni sindacale di modesta entità, di stipulare transazioni valide ed efficaci. E ciò a prescindere dal fatto che sia stata garantita al lavoratore effettiva assistenza e che siano state rispettate tutte le previsioni legislative in tema di sede e modalità previste dal CCNL.
La ratio della norma sembrerebbe quella di escludere che un’organizzazione sindacale priva di una sua reale ed acclarata rappresentanza possa fornire al lavoratore un’effettiva “protezione”, la quale necessita di una più ampia tutela da parte di un soggetto dotato di tale competenza, come richiesto dall’art. 2113 c.c.
Si tratta di un aspetto poco valorizzato dalla giurisprudenza, ma che necessita certamente di un intervento preciso e puntuale che faccia chiarezza sul punto.
Ultima questione di rilievo in tema di transazione, è quella relativa al termine decadenziale di sei mesi previsto dall’art. 2113 c.c. ai fini dell’impugnazione.
Qualora tale termine sia decorso, ed il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato una transazione, è comunque possibile far valere gli ordinari rimedi civilistici: la nullità e l’annullabilità dell’atto.
E’ quanto emerge da una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 440/2021), nella quale viene affermato che “la inoppugnabilità prevista dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. non si riferisce alle azioni generali di nullità e di annullabilità dell’atto perché…l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro è finalizzato a sottrarre il lavoratore alla condizione di soggezione rispetto al datore di lavoro, che potrebbe indurre a sottoscrivere transazioni e rinunce frutto della prevaricazione esercitata dal datore. Rimangono, invece, esperibili i mezzi ordinari di impugnazione concessi ai contraenti per far valere i vizi che possono inficiare il regolamento contrattuale, ossia le cause di nullità o di annullabilità, poiché rispetto a tali azioni l’intervento dell’ufficio provinciale del lavoro non può esplicare alcuna efficacia sanante o impeditiva” (sul punto vedi anche Cass. n. 25020/2017).
Si pensi al caso frequentemente verificatosi in cui, in occasione di un cambio di appalto, ad un lavoratore viene chiesto di sottoscrivere dei fogli, senza che sia lasciata al medesimo alcuna possibilità di prendere visione del loro contenuto, riferendo il datore che la sottoscrizione di tali fogli è necessaria al fine di essere assunti alle dipendenze della nuova società subentrante nell’appalto e che in caso di mancata sottoscrizione egli non potrà essere assunto.
In simili ipotesi, anche in difetto di impugnazione entro il termine semestrale della transazione, sarà possibile esperire i rimedi civilistici, e dunque ad esempio l’annullamento della transazione per dolo ex art. 1427 c.c., posto che il consenso del lavoratore sarebbe stato carpito mediante raggiri (non aver dato modo al lavoratore di visionare il contenuto dell’accordo, aver riferito allo stesso un contenuto diverso da quello effettivo, aver prospettato una mancata assunzione da parte della società subentrante).
L’abuso dello strumento della transazione nel settore degli appalti è reso possibile dal fatto che non esiste in materia una norma che imponga all’impresa subentrante nell’appalto di assumere tutti i dipendenti in forza presso l’impresa uscente, ma la disciplina dei cambi di appalto viene rimessa alle previsioni contenute nei CCNL applicati nei vari settori (per di più non tutti i CCNL la prevedono). Ed è in questo contesto di incertezza che si creano le condizioni per una costante violazione dei diritti mediate sistematici accordi transattivi che si estendono anche alle società committenti responsabili in solido dei trattamenti retributivi ex art. 29 D.Lgs. 276/2003.
Spesso sono gli stessi soggetti committenti che, assegnando le lavorazioni a più appaltatori che si susseguono nel tempo, beneficiano di tali situazioni.
E’ venuto a nostro avviso il momento di porre con più forza nei Tribunali la questione qui in discussione, esigendo che la validità di tali accordi passi attraverso uno specifico accertamento delle condizioni sopra indicate, e che dunque via sia stata una pregressa richiesta formale del lavoratore, che l’assistenza sindacale sia stata richiesta dal lavoratore e non intervenga un sindacato individuato dal datore di lavoro, che tale assistenza sia effettiva e dunque prestata da persona a conoscenza della pregressa storia lavorativa del prestatore, e nel rispetto di sedi e modalità previste dai contratti collettivi maggiormente rappresentativi.

 

 

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