La pandemia in uno Stato non più sociale
di Silvia Ventura
Sono più di due mesi che un’informazione atrofizzata, poco incline ad affrontare con parole chiare la complessità del mondo, votata alla semplificazione ed allo slogan, parla incessantemente di “guerra” e di “eroi”.
Chi sono nel mezzo della pandemia questi eroi per l’informazione italiana?
Anzitutto i medici, gli infermieri, gli operatori sanitari. Ma non i dipendenti di cooperative e società private impiegati nella sanificazione e nella pulizia degli ambienti ospedalieri, spesso con retribuzioni ridicole, turni massacranti e nessun rispetto delle norme sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. In un secondo momento la qualificazione è stata estesa ai dipendenti della grande distribuzione.
Sono persone che hanno svolto il loro lavoro in condizioni difficili, con turni infiniti, spesso in assenza delle necessarie misure di sicurezza. Ma parlare di eroi serve proprio a distogliere l’attenzione dal fatto che si tratta di lavoratori, come tali titolari di diritti ormai da decenni calpestati. Si parla di eroi per non ammettere che la pandemia ha messo in luce tutti i drammi di un tessuto socio-economico disgregato, un contesto dove l’emergenza abitativa e alimentare ha toccato punte inaccettabili in uno stato che si definisce democratico.
Nulla si dice invece di tutti coloro che, militando all’interno di centri sociali, movimenti politici, case del popolo e associazioni comunque presenti sui territori, si sono impegnati, anche durante la presente crisi sanitaria, nonostante i rischi, per cercare di colmare quanto più possibile il vuoto da tempo lasciato dalle istituzioni.
Lo hanno fatto mettendo in campo capacità organizzativa, forze, impegno, attraverso vere e proprie azioni di mutualismo e solidarietà dal basso, in favore di quelle larghe fette di popolazione abbandonate e letteralmente prive di mezzi di sostentamento, men che meno messe nelle condizioni di condurre una vita libera e dignitosa come vorrebbe l’art. 36 della nostra Costituzione.
Lo fanno da sempre, è una delle loro priorità in un contesto che vede i diritti sociali sotto attacco da ben prima dell’avvento della pandemia. Ma si sono trovati ad intensificare il proprio contributo per cercare di non lasciare indietro nessuno.
Giovanissimi, giovani e meno giovani, spesso essi stessi lavoratori precari, hanno affrontato l’emergenza organizzandosi e continuando nelle proprie pratiche quotidiane, mantenendo quindi la propria presenza sui territori, nella convinzione che rispondere ai bisogni materiali delle persone costituisca un dovere etico, ma soprattutto politico: si sono attivati per garantire la consegna della spesa nelle case delle persone impossibilitate ad uscire perché in quarantena o perché a rischio, hanno promosso campagne di raccolta fondi per poter predisporre e consegnare veri e propri pacchi della spesa per chi non riesce a far fronte a tali necessità primarie nemmeno attraverso i buoni spesa forniti dai Comuni, hanno predisposto una rete di ascolto e orientamento per tutte le difficoltà insorte sul piano lavorativo. Hanno costituito e costituiscono in definitiva punto di riferimento nei quartieri più disagiati.
Solo per fare un esempio, ma a livello nazionale sono molteplici le realtà che si sono attivate in questa crisi attraverso gli interventi appena descritti, a Napoli, il centro sociale ex – OPG ‘Je so pazzo', da anni attivo a sviluppare pratiche di mutualismo in favore dei ceti più disagiati della città, si è organizzato attraverso numerose iniziative: ha attivato una linea telefonica di supporto ai lavoratori, dando voce e sostegno agli scioperi e alle lotte in corso per la sicurezze e le tutele sociali e nei luoghi di lavoro; ha promosso una raccolta fondi per permettere l’acquisto di pacchi spesa al fine di sostenere oltre 400 famiglie della città, arrivando a tutti coloro che, per varie ragioni, sono rimasti esclusi dagli aiuti pubblici.
La rete solidale che si è costruita in queste settimane in tutto il paese ha raggiunto decine di migliaia di persone, riconoscendosi in pratiche spontanee comuni per sostenere i bisogni alimentari, l’assistenza sul lavoro, la mancanza di dispositivi digitali per gli studenti, sostituendosi nei fatti la carenza d’intervento istituzionale e fronteggiando gli effetti di tale carenza.
Tutto questo non deve essere scambiato per beneficenza. Si tratta di una pratica politica indefettibile per soggetti che fanno del mutualismo uno strumento di conoscenza dei problemi del territorio, tenendo sempre ben presente un obiettivo fondamentale sul piano politico: riconnettere un tessuto socio-economico frantumato, anche sul piano umano, renderlo di nuovo capace di organizzarsi e promuovere soluzioni collettive ai problemi dei singoli. Quindi elaborare, dal basso, vere e proprie proposte politiche.
La descritta attività mutualistica sul territorio da parte di questi soggetti – intensificata in tempi di pandemia - mette in luce il grande fallimento delle democrazie occidentali. Nate nell’idea dello Stato Sociale, hanno progressivamente abbandonato tale obiettivo.
Non parlare di queste realtà e preferire un racconto fatto di guerra e di eroi, significa ignorare le cause che hanno provocato il vuoto in cui si sono inserite le iniziative dei centri sociali e dei movimenti politici che partono dal basso per elaborare soluzioni politiche di lungo respiro. Soluzioni che riportino al centro quello Stato Sociale di cui oggi rimane ben poco.
Chi si è attivato nelle pratiche mutualistiche sopra descritte ha potuto toccare con mano la diffusione del fenomeno del precariato, del lavoro povero, del lavoro nero e del lavoro grigio. Ha potuto verificare quanto questi soggetti siano oggi scoperti, privi di tutele. I fondi stanziati dal governo per il bonus spesa e i conseguenti criteri restrittivi stabiliti in molti Comuni sono risultati largamente insufficienti per una platea di classi popolari precipitata nella povertà che è andata allargandosi in pochissimo tempo.
Dobbiamo quindi constatare, con amarezza, che l’affermazione dei diritti sociali quali veri e propri diritti soggettivi, quelli che caratterizzano il modello di Stato Sociale disegnato dalla nostra Carta Costituzionale è stata messa in discussione mediante l’affidamento al mercato di sempre più estese prestazioni sociali ed il progressivo e costante abbattimento della spesa pubblica in tali settori.
Il culmine dello smantellamento dello Stato Sociale è rappresentato dall’introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione attraverso la discussa modifica dell’art. 81: da questo momento i diritti sociali perdono forza e valore, divengono di fatto inesigibili, sempre condizionati da questioni di bilancio.
Inoltre le politiche di austerità hanno di fatto favorito la parte più benestante del paese e i suoi risparmi. Da un lato si sono perseguiti tagli allo Stato Sociale in nome del pareggio di bilancio, scaricando le perdite e i costi della crisi sulle classi popolari. Dall’altro i patrimoni privati in Italia, stando agli ultimi dati della Banca d’Italia, ammontano a 9.743 miliardi di euro, facendoci posizionare al nono posto tra i paesi più ricchi del mondo. Esiste quindi una disponibilità immediata di risorse ma è sempre mancata la volontà politica di attuare la redistribuzione necessaria per implementare le politiche sociali e per il lavoro.
E così gli effetti della pandemia sul piano socio-economico si abbattono su un sistema già ampiamente deteriorato, su un contesto fragile e caratterizzato dalla precarietà.
In tale contesto dall’esperienza dei centri sociali e del mutualismo appena descritta, può trarsi una conclusione che è anche la loro proposta politica: l’enorme impegno sceso in campo per resistere agli effetti della crisi e al lockdown può diventare la base di partenza per una piattaforma rivendicativa e organizzativa. Da qui, da queste antenne solidali ormai diffuse sui territori, nei quartieri e nelle periferie, riparte la democrazia, la possibilità di immaginare nuove proposte e soluzioni contro le disuguaglianze, per la giustizia sociale e ambientale. A partire dagli enti di prossimità si possono costruire nuove forme della rappresentanza sociale del territorio, per rispondere alla crisi con un nuovo mutualismo radicale, che sia strumento di mobilitazione e rappresentanza degli interessi collettivi.
Questo ruolo dei centri sociali e la prospettiva in cui si muovono appare assolutamente coerente con il modello costituzionale rispetto al quale Piero Calamandrei ne “Lo Stato siamo noi”, con riferimento all’art. 3, comma 2 della Costituzione italiana, scriveva: “E’ compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. primo – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità di ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società”.
Quella dei centri sociali e dei soggetti a loro assimilabili è dunque una realtà che meriterebbe maggiore attenzione da parte dell’informazione, che invece non se ne occupa o se se ne occupa, è solo per ripetere triti luoghi comuni tendenzialmente diffamatori che nulla hanno a che vedere con la realtà.