Precari, cosa cambia con il Decreto dignità
Articolo pubblicato sul Manifesto in data 31 luglio 2018
di Piergiovanni Alleva
Le roventi polemiche che accompagnano l’iter di approvazione del cosiddetto Decreto Dignità, in particolare nella sua parte dedicata al contrasto al precariato ossia alla limitazione dell utilizzo dei contratti di lavoro a termine, consigliano di offrire al lettore un qualche orientamento di carattere anzitutto metodologico per poter valutare la rilevanza delle novità e, per altro verso, le ragioni della rabbiosa reazione datoriale.
Possiamo dire, in linea generale, che il lavoratore precario può sperare su una triplice tipologia di limiti e condizioni di utilizzo del contratto a termine che vogliamo subito enunciare. A: la necessaria ricorrenza di causali, ossia di ragioni per le quali un contratto a termine può essere stipulato in quanto è obiettivamente a termine l’esigenza lavorativa cui esso fa fronte; b la durata complessiva del lavoro a termine, nel senso che, anche quando dei singoli contratti sono giustificati dalla loro causale e sono pertanto leciti, occorre mettere un limite al tempo complessivo per il quale ci può essere un dipendente a termine nella stessa azienda; C: la percentuale complessiva dei contratti a termine esistenti in una stessa azienda, nel senso che i rapporti a termine, anche se legittimi, non possono riguardare la maggioranza dell occupazione in un’azienda ma solo una percentuale del 10 – 30 %
Queste tre direttrici vanno esaminate separatamente per evitare confusione. Non v’è dubbio che il primo limite, quello della causale, sia il più importante ed anche il più razionale perché è assolutamente logico che un contratto a termine si possa e si debba fare per una esigenza lavorativa solo temporanea, se l’esigenza è invece continuativa è evidente ed innegabile che il contratto a termine serve solo a tenere il lavoratore sotto ricatto. Oppure, a tutto concedere, che nel caso di un primo rapporto possa servire a valutare il reciproco gradimento tra datore di lavoro e lavoratore imitando in sostanza la funzione del patto di prova. Il Decreto Dignità, nella sua prima versione, prevedeva che la causale fosse sempre necessaria fin dal primo contratto a termine, ma poi, per una necessità di mediazione politica, si è previsto che il primo contratto, al quale soltanto può essere riconosciuta una funzione di prova, possa essere senza causale.
Va chiarito a questo proposito un punto assai importante. Una volta esaurito, tra il lavoratore Tizio e il datore Caio, un primo contratto senza causale di durata anche inferiore a quella massima di 12 mesi, il contratto successivo dovrà necessariamente recare la causale, riguardante la sussistenza di esigenze temporanee da specificare accuratamente nella lettera di assunzione. Non è vero quindi che fino a 12 mesi non occorre mai la causale perché se il primo contratto è ad esempio solo di un mese, un suo eventuale rinnovo comporterà da subito l’obbligo della causale.
Bisogna solo specificare che una cosa è un rinnovo, cioè la stipula di un altro contratto a termine, altro la mera proroga del primo perché, nel caso di proroga la causale dovrà essere espressa solo se essa supera i 12 mesi. La distinzione sembra sottile, e forse lo è, ma nella pratica è facile distinguere un nuovo contratto dalla semplice proroga dello stesso senza interruzione. Il punto fondamentale, che limita effettivamente il precariato, è che se la causale non ricorre poi in concreto quando è stata esplicitata, il rapporto di lavoro si trasforma a tempo indeterminato, cioè la vera tutela che il vecchio decreto Poletti aveva vergognosamente cancellato.
La seconda limitazione a difesa dei lavoratori a termine riguarda la durata massima dello stesso lavoro a termine, anche se con le causali perfettamente in regola, e qui si sono fatte e si fanno molte polemiche sul limite massimo complessivo di lavoro a termine presso la stessa ditta che non è più di 36 ma di 24 mesi. Il problema che è stato artatamente agitato è stato quello di una perdita di posti di lavoro perché oggi l’impresa si trova di fronte all’ alternativa di assumere stabilmente o meno un precario dopo 24 mesi di precariato e non più dopo 36 ma, appunto si vuole, da parte del legislatore, che le aziende si assumano questa responsabilità fermo restando che se non se l’ assumessero e volessero allontanare il lavoratore comunque avrebbero bisogno di un suo sostituto sicché il calo occupazionale complessivo non si verificherebbe.
Quel che ci preme sottolineare però è che alla fine del periodo di 24 mesi potrebbe verificarsi una sorta di deteriore commercio tra le imprese datrici di lavoro: io ti do da assumere ex novo il mio vecchio precario arrivato a 24 mesi e tu mi dai il tuo mantenendo precari entrambi. Questo rischio può essere evitato in un modo semplicissimo già suggerito, ad esempio, dall’associazione dei giuslavoristi democratici Comma Due ed è quello per cui al lavoratore precario arrivato ai 24 mesi bisognerebbe riconoscere un diritto di precedenza in tutte le nuove assunzioni presso il suo datore di lavoro cessante sia che si tratti di nuove assunzioni a tempo determinato che indeterminato.
Concludiamo specificando che il problema della durata è sì importante, ma molto meno di quello delle causali perché è davvero dalle causali che passa la lotta allo sfruttamento e al ricatto. La terza difesa o limitazione riguarda il numero complessivo ovvero la percentuale di lavoratori a termine sul totale dei lavoratori dell azienda. Questo è un limite che non è facile controllare e al quale, fino al Jobs act, si riconosceva però un’ importanza qualitativa perché il superamento della percentuale comportava che i lavoratori in esubero si trasformassero a tempo indeterminato. Il Jobs act ha sostituito questa sanzione di stabilizzazione in una semplice multa per colpa, ancora una volta, dei parlamentari del Pd che non ebbero nessuna remora a tornare indietro rispetto a quanto pacificamente ritenuto dalla Cassazione che in quei casi applicava sistematicamente la trasformazione. Non sembra che il Decreto Dignità sia andato più oltre, ma Roma non fu fatta in un giorno e anche un viaggio di venti miglia inizia con un passo.