Verso il salario minimo garantito per legge?
di Enzo Martino
Articolo pubblicato sulla rivista online "Volere la luna" in data 30/04/2019.
La lunga crisi economica e alcuni fattori strutturali – quali globalizzazione, terziarizzazione e delocalizzazione dei processi produttivi – hanno in questi anni profondamente peggiorato la condizione di larghe fasce di lavoratori e soprattutto di lavoratrici. Una buona parte degli occupati guadagna meno che in passato e vive in una situazione di estrema precarietà. Tra questi, molti, per l’inadeguatezza dei salari e/o per gli orari ridotti cui sono costretti, non traggono dalla loro attività quanto sarebbe necessario per garantire, a loro e alle famiglie, quell’esistenza libera e dignitosa che il Costituente aveva solennemente promesso nell’art. 36 dalla Carta.
Il fenomeno in Italia è imponente: il CNEL stima che il cosiddetto “lavoro povero” abbia interessato già nel 2015 oltre 3 milioni di individui e abbia posto 2,2 milioni di famiglie in condizioni di rischio povertà, nonostante che almeno un componente del nucleo risulti occupato.
Di fronte a questa situazione di vero e proprio allarme sociale, il legislatore è rimasto inerte oppure, ancor peggio, ha varato misure tese soltanto a rendere più flessibile un mercato del lavoro già fortemente segmentato, così contribuendo a rendere i lavoratori più indifesi ed esposti al ricatto dei bassi salari, pur di mantenere il posto di lavoro.
L’esplodere della questione salariale ha inevitabilmente riproposto il tema del salario minimo garantito per legge, e ciò anche perché la contrattazione collettiva, pur avendo in Italia un grado di copertura più alto della media europea, si è dimostrata non del tutto adeguata a contrastare il fenomeno.
Ciò è avvenuto in primo luogo perché il sistema di contrattazione collettiva di diritto comune – in un quadro normativo di perdurante mancata attuazione dell’art. 39 della Costituzione ‒ non possiede efficacia erga omnes, con la conseguenza che si fa via via più forte la spinta al dumping salariale tra le imprese, mediante l’applicazione di contratti stipulati da associazioni di assai dubbia rappresentatività (cosiddetti “contratti pirata”). Si pensi che al CNEL, ad oggi, sono depositati quasi 800 contratti nazionali e meno di un terzo di questi sono sottoscritti dalle associazioni di categoria aderenti a CGIL, CISL e UIL. Di recente, si assiste però anche all’inedito fenomeno di qualche contratto nazionale che, pur essendo sottoscritto dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, assicura livelli salariali che qualche giudice non ha esitato a ritenere inidonei a soddisfare i requisiti di proporzionalità e sufficienza richiesti dall’art. 36 della Costituzione.
Del resto, da uno studio dell’INPS risulta che il 21 % dei lavoratori percepisce meno di 9 euro lordi l’ora e la percentuale aumenta addirittura al 26% per la manodopera femminile e al 38% per quella giovanile.
In questa situazione così grave e complessa, è del tutto naturale che la discussione sull’opportunità o meno di un intervento eteronomo sui salari abbia trovato un forte impulso.
Un confronto parlamentare è in atto alla Commissione lavoro del Senato, con l’esame di due disegni di legge: il n. 310 del PD (primo firmatario il senatore Laus, noto in particolare a Torino per avere in passato applicato alle cooperative da lui amministrate salari ben al di sotto di quelli previsti dalla contrattazione collettiva sottoscritta dai sindacati maggiormente rappresentativi) ed il n. 658 del Movimento 5Stelle (prima firmataria la senatrice Catalfo, presidente della stessa Commissione). Molto di recente, il PD ha presentato un altro disegno di legge a firma dei senatori Nannicini e Fedeli, probabilmente perché ha dovuto prendere atto delle critiche mosse da più parti al disegno di legge n. 310 il quale, pur fissando in 9 euro netti l’ora il salario minimo, ignorava del tutto ruolo e funzione della contrattazione collettiva,
Anche questo secondo testo, però, non è convincente, in quanto ‒ pur richiamandosi ai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative ‒ demanda a una Commissione paritetica di venti componenti, diretta dal presidente del CNEL, sia l’individuazione dei criteri di maggior rappresentatività delle contrapposte organizzazioni sindacali, sia gli ambiti e l’efficacia dei contratti collettivi: soluzione non solo farraginosa, ma anche pericolosamente lesiva dell’autonomia sindacale e di dubbia costituzionalità.
Di maggior interesse e sostenibilità giuridica è invece il disegno di legge n. 658, che ha l’indiscutibile pregio di demandare la definizione del “trattamento complessivo economico minimo” ai contratti nazionali di lavoro sottoscritti dalle associazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, individuate dal lato dei lavoratori sulla base dei criteri fissati dall’accordo interconfederale del 10 gennaio 2014 stipulato tra Confindustria e CGIL-CISL-UIL, e, dal lato dei datori di lavoro, in base al numero di imprese associate e al numero di dipendenti da queste occupati. Viene anche previsto un trattamento complessivo minimo di 9 euro lordi l’ora, ma tale minimo svolge una funzione meramente residuale, applicandosi soltanto nei casi in cui i CCNL prevedano minimi inferiori. In via generale, invece, il trattamento economico complessivo minimo sarà quello previsto dai CCNL sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative e direttamente applicabile al datore di lavoro ovvero – quando manchi un contratto collettivo di riferimento – da quello “maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo” all’attività prevalente. Tale trattamento minimo è garantito anche alle collaborazioni autonome etero-organizzate di cui all’art. 2 del decreto legislativo n.81/2015 (tra i quali i riders), colmandosi così, almeno in parte, il grave vuoto regolativo che affligge la legge n. 81/2017 sul lavoro autonomo, la quale non prevede alcuna forma di equo compenso.
L’intenzione dei proponenti è quindi quella di tentare di realizzare i principi dell’art. 36 della Costituzione, senza ledere i dettati di cui all’art. 39, commi da 2 a 4, ma anche purtroppo senza ambire a dare finalmente attuazione al meccanismo costituzionale di registrazione dei sindacati e di efficacia obbligatoria dei contratti collettivi ivi tracciato (così come invece proposto nel disegno di legge di iniziativa popolare della CGIL denominato “Carta dei diritti”). In altre parole, pur non estendendosi erga omnes l’efficacia soggettiva di tutto il CCNL, se ne estendono almeno i minimi salariali, come è consentito di fare in base ai principi affermati di recente dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 51 del 2015, sentenza nella quale la Consulta ha ammesso che le tabelle salariali possano essere assunte come mera base di riferimento del trattamento retributivo senza che ciò violi i precetti dell’art. 39 Costituzione.
Nonostante questo impianto certamente rispettoso del ruolo della contrattazione collettiva, non sono mancate critiche al progetto da parte delle organizzazioni imprenditoriali e dalle stesse organizzazioni sindacali dei lavoratori, preoccupate di salvaguardare il proprio ruolo nella regolazione salariale. In particolare, viene vista con grande diffidenza la fissazione di un minimo di retribuzione inderogabile anche dalla contrattazione collettiva, temendo che questo possa provocare «una fuoruscita dall’applicazione dei CCNL rivelandosi così uno strumento per abbassare i salari e tutele delle lavoratrici e dei lavoratori» (citazione testuale tratta dal documento unitariamente presentato in sede di audizione parlamentare dalle tre maggiori Confederazioni sindacali).
Personalmente non condivido questa pur legittima preoccupazione. Sono viceversa convinto che la fissazione per legge di un tetto minimo possa rappresentare un sostegno alla contrattazione sindacale dei salari ed anzi possieda un grande valore “simbolico”, particolarmente in una fase storica in cui il valore del lavoro è stato svalutato al punto da consentire lo “sdoganamento” del lavoro gratuito o quasi gratuito (si pensi agli accordi stipulati in occasione di Expo 2015).
A chi si ostina a sostenere che anche la CGIL è sempre stata contraria a interventi del legislatore sul salario, vorrei ricordare la proposta di legge di “Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori” presentata nel 1954, in un altro periodo di emergenza salariale, da Giuseppe Di Vittorio e Fernando Santi alla Camera dei deputati (prima firmataria Teresa Noce), quando ancora i massimi dirigenti sindacali in carica sedevano in Parlamento. Nella relazione introduttiva della proposta di legge, peraltro mai approvata, si legge che l’iniziativa era stata assunta «per assolvere al compito di attuare concretamente l’articolo 36 della Costituzione italiana». Tale compito è di nuovo drammaticamente all’ordine del giorno: perciò ritengo che non ci si possa prendere la responsabilità di opporre rifiuti pregiudiziali o ideologici a una proposta che, pur migliorabile, va comunque nella direzione di garantire ai più deboli quell’esistenza libera e dignitosa che i Padri Costituenti immaginarono anche per loro.