Agli imprenditori non interessa la dignità del contratto a termine
Articolo pubblicato sul Manifesto in data 24 agosto 2018
Decreto dignità. Ferme restando le doverose critiche alle non condivisibili politiche governative, un giuslavorista non può astenersi da una valutazione di merito di importanti innovazioni introdotte nel campo del diritto del lavoro
Le prese di posizione da parte di autorevoli giuristi “di sinistra” (quali Alleva, Mariucci, Martino) sulla legge 96 del 2018 di conversione del cd. decreto dignità, contenenti – anche – apprezzamenti, hanno suscitato accuse di “collaborazionismo” verso un governo che in altri settori (immigrazione, razzismo, famiglia, ordine pubblico, sanità, per non parlare dell’affidabilità finanziaria) appare impresentabile.
Personalmente ritengo che, ferme restando le doverose critiche alle non condivisibili politiche governative, un giuslavorista non possa astenersi da una valutazione di merito di importanti innovazioni introdotte nel campo del diritto del lavoro.
Una premessa si rende necessaria: non faccio parte di coloro che acclamano acriticamente la legge, non tanto e non solo per il fatto che ha esteso l’applicazione dell’istituto del lavoro occasionale (voucher, per intendersi), emblema del lavoro precario, quanto per aver lasciato intatto l’impianto del Jobs Act in materia di licenziamenti.
Invece il tentativo della legge di voler contenere l’abuso dei contratti a termine, proliferati nella vigenza della precedente normativa, è apprezzabile, e si spera non si verifichi quell’eterogenesi dei fini (di contrasto al precariato) forse auspicata da chi critica la legge. In buona sostanza ci si preoccupa del fatto che, dovendo il datore di lavoro per legge provare l’effettiva sussistenza di una ragione oggettiva e temporanea che giustifichi un contratto a termine, si esporrebbe al rischio di dichiarare una cosa falsa e di pagarne le conseguenze.
Il fatto è che la legislazione del lavoro degli ultimi tempi ha creato pericolosi precedenti: non solo ha compresso i diritti dei dipendenti ampliando i poteri del datore di lavoro, non solo ha circoscritto il potere discrezionale del giudice, ma ha considerato normale la pretesa degli imprenditori di sapere in anticipo con precisione le conseguenze economiche che potrebbe conseguire a un esercizio arbitrario del loro potere.
Nel diritto penale il principio della certezza della pena attribuisce al reo la possibilità di conoscere preventivamente le conseguenze delle proprie azioni, ma mai in termini assoluti, perché altrimenti basterebbe demandare ad un computer l’esercizio del potere giudiziario. Il giudice penale, infatti, deve valutare il caso concreto e quindi anche le circostanze che portano ad attenuare, aggravare o addirittura escludere la punibilità in particolari situazioni (si pensi alla legittima difesa).
Il decreto legislativo 23 del 2015, che ha istituito il contratto a tutele crescenti, ha voluto negare un analogo potere discrezionale al giudice che deve valutare l’esercizio del potere disciplinare ai fini della possibilità di reintegrare il lavoratore nel suo posto, prevedendo delle “pene fisse” che presuppongono un mero automatismo nella loro applicazione e prescindono dall’effettività del danno arrecato.
Un simile trattamento privilegiato non trova riscontro neanche nel diritto civile ordinario che, di regola, in caso di illecito, prevede una situazione di ripristino della situazione di legittimità o, ove questa non sia possibile, un pieno risarcimento dei danni (in alcuni casi, entrambe le sanzioni).
Quello che una volta era il diritto del lavoro ora si è trasformato nel diritto del datore di lavoro: diversamente dal rapinatore di banche (che non può sapere con certezza quanto esattamente il suo programmato reato gli comporterà in termini di anni di galera), e dal conduttore di auto investitore di un pedone che attraversa sulle strisce (che sarà tenuto – lui o la sua assicurazione – al risarcimento pieno di tutti i danni che lo stesso subisce senza poterli conoscere preventivamente), il datore di lavoro che consapevolmente pone in essere un atto illegittimo – qual è il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo – può farlo avendo a mente “quello che gli costa”.
Ottenuto questo, la nostra classe imprenditoriale ha forse pensato di avere acquisito un generale diritto all’immunità e vede quindi con fastidio e insofferenza l’idea di dover subire una causa in ipotesi di utilizzo arbitrario di un istituto giuridico – il contratto a termine – che, per definizione, dovrebbe essere finalizzato a esigenze temporanee.
Quello che però è ancora più grave è trovare schiere di giuristi che considerano naturale farsi “portatori d’acqua” dell’esigenza di certezza di impunità (o di modesta punibilità, calcolabile preventivamente) da parte di chi persegue o intende perseguire fini vietati dalla legge.